«È cominciata la campagna per tornare nell’Unione europea». C’è un pezzo di Regno Unito che non si è rassegnato alla Brexit. A ridosso del referendum del 2016 era minoritario, o l’abbiamo pensato tale, se può essere minoritario il quarantotto per cento non della popolazione, ma di chi era andato a votare. Oggi le cose sono diverse. Lo dicono i sondaggi: la maggioranza degli inglesi, se solo potesse, vorrebbe invertire il divorzio e, in generale, sarebbe disposta a ricedere a Bruxelles un po’ di quella maledetta «sovranità» in cambio di importazioni meno costose. Lo testimonia a Linkiesta John McPhie, fondatore di Rejoin and Reform, che sabato scorso ha fatto marciare cinquantamila persone a Londra. Il sogno è rientrare nell’Ue. Sembra(va) utopia, ma lui è sicuro: il vento sta cambiando.
McPhie ha un passato nell’esercito e poi nell’impresa. Quattro anni fa ha creato una delle sigle più attive nella contro-narrazione sulle forzature e gli inganni dell’addio, su cui il partito conservatore ha costruito abusivamente i suoi successi elettorali. Più di un movimento d’opinione: R&R fa fact checking, lobbying e organizza manifestazioni, come quella nella capitale. Oggi ha migliaia di iscritti e sono arrivati bus da tutto il Paese per sfilare fino a Parliament Square. Era la prima volta dopo la pandemia e rivedere sul Tamigi le bandiere blu con le stelle dorate fa un certo effetto.
La Brexit? «Era già un disastro, si sta trasformando in una catastrofe socioeconomica». È il sintomo di una nazione che ha bisogno di riforme, se lo strapotere dei Tories ormai screditati passa dal quarantatré per cento dei consensi nel 2019. Per questo, Rejoin and Reform propone un’agenda in tre passi: tornare nell’unione doganale europea, rinnovare l’architettura istituzionale, avviare le trattative per l’ingresso nell’Ue. «L’uscita dal mercato unico non è mai stata parte del referendum, ce l’ha infilata l’ala destra ed euroscettica dei conservatori alle elezioni del 2017 e abbiamo avuto all’improvviso una hard Brexit».
Un partito ossessionato da Margaret Thatcher, che però quell’unione doganale ha contribuito a imbastirla, secondo McPhie è ostaggio del «culto» della Brexit. Ma sbloccare gli scambi commerciali dovrebbe essere una questione di buon senso, di problem solving. Semplificare la vita alla gente sarebbe il minimo, dopo avergliela complicata. Non è detto, quindi, che gli unici in cui sperare siano i laburisti. Anzi, il loro leader Keir Starmer è soprannominato «il cavaliere silente» perché non si pronuncia mai sulla questione e, quando lo fa, insiste per portare avanti il progetto fallimentare dei rivali, anche se il sessanta per cento della base del partito vorrebbe metterlo in discussione.
«Il referendum non era vincolante, sono stati i Tories a dirlo e hanno spiazzato tutti» sostiene McPhie. David Cameron, il premier dell’epoca, era impopolare a causa dell’austerità economica: il suo contributo alla campagna è stato un volantino, spedito in tutto il Regno Unito. Dieci pagine per magnificare l’Ue. È costato milioni di sterline, non l’ha letto nessuno. La carta era già anacronistica, imperanti i social media. «Nessuno ha mai chiarito dove “Leave.EU” (uno dei gruppi politici pro Brexit alternativo a “Vote Leave”, quello promosso dal partito conservatore, ndr) abbia trovato quei misteriosi otto milioni: sono arrivati da Vladimir Putin».
Intanto, il nuovo primo ministro Rishi Sunak sembra rinunciare al piano dell’ex ministro Jacob Rees-Mogg per emendare le duemila quattrocento leggi ereditate dalle normative comunitarie. Servirebbe uno staff elefantiaco, Sunak ha altre priorità. Ha di fatto soppresso il «ministero delle opportunità della Brexit», istituito da Boris Johnson, di cui era titolare proprio Rees-Mogg. Per risolvere lo stallo sull’Irlanda del Nord, McPhie offre una soluzione pragmatica al premier: riportare tutta la Gran Bretagna dentro il mercato unico in cui è rimasta la provincia di Belfast. Suona provocatorio: non lo è riconoscere che la Brexit non abbia mantenuto le promesse e sia stata pagata soprattutto dalle classi più deboli. In modo tangibile, nel deterioramento della vita quotidiana.
«La grande delusione generata dalla nostra autodistruzione è morta. Siamo entrati in una nuova fase. Il governo è esaurito. Alla mercé di una stanca ideologia neoliberista, che solo pochi dei suoi componenti capiscono, divorati dal carrierismo a dai propri interessi, sta andando verso uno tsunami di problemi che si è prodotto da solo e non sa come affrontare». Prima c’è stato il coronavirus, poi la guerra in Ucraina, ma adesso Downing Street ha finito le scuse. «Sotto queste acque fangose c’era sempre la Brexit».
Tutto è più costoso. Quando i tassi salgono così tanto, chi ha un mutuo rischia di perdere la casa. Manca manodopera, soprattutto nel Servizio sanitario nazionale tanto celebrato durante la pandemia. Smaltito lo choc per la morte della Regina Elisabetta, secondo McPhie gli inglesi si sono «svegliati». I laburisti salgono nei sondaggi ma devono risolvere il dilemma esistenziale, i conservatori annoverano tra i loro donatori oligarchi ripudiati e non da Putin. Alle prossime elezioni Rejoin and Reform promuoverà il voto tattico e una «coalizione dei progressisti».
Da Oltremanica, McPhie ha avuto una prospettiva privilegiata sull’Europa del dopo 2016. Quella che a sentire i sovranisti non sarebbe dovuta sopravvivere alla Brexit e invece è ancora qui. «L’Europa è molto di più del commercio, che è quasi incidentale – conclude il fondatore di Rejoin and Reform –. È creare una comunità prospera». Lui usa una parola più evocativa in inglese che in italiano: togetherness. «Spesso l’Ue era lenta a reagire, ma per l’Ucraina ha agito in fretta. È stata rassicurante, la politica europea ha dimostrato di essere matura. L’Europa un ideale meraviglioso, in divenire da centinaia di anni».