Se inquini mi licenzioIl fenomeno del climate quitting è concreto e preoccupa i datori di lavoro

Entro il 2025, il settantacinque per cento della popolazione attiva sarà costituita da millennial, una generazione molto più sensibile ai temi ambientali rispetto alla precedente. Per attrarre e trattenere personale, le aziende non possono più avere piani “green” astratti e poco incisivi

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Catherine Cleary, impiegata nella ristorazione, si è licenziata dopo aver letto nel rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change) del 2018 di come il mondo potrebbe cambiare se la sua temperatura dovesse aumentare di 1,5 gradi centigradi. Justin Kennedy ha abbandonato la sua lunga carriera da avvocato per le compagnie petrolifere dopo aver letto che per raggiungere gli obiettivi climatici è indispensabile non realizzare più nuovi progetti incentrati sul fossile. 

Ci sono decine di motivi per cui si decide di rifiutare un’offerta di lavoro o di lasciare un impiego. Stipendio inadeguato, eccesso di straordinari, insoddisfazione generale e voglia di cambiare. Oppure semplicemente perché in quell’azienda non ci si rivede: non fa abbastanza per l’ambiente e non ha rispetto dei valori sociali fondamentali. Proprio come è accaduto ai protagonisti delle storie raccolte e raccontate da Bloomberg, Catherine e Justin. 

Quella del climate quitting, in realtà, non è una pratica del tutto nuova. Seppur il suo nome sia piuttosto giovane – è apparso sui media mainstream soltanto di recente – prendere le distanze da un’azienda perché lontana da certi requisiti (principalmente) ambientali è un fenomeno che sta crescendo da alcuni anni, praticamente di pari passo con la discussione sulla crisi climatica. Un tema, quest’ultimo, che tocca e sensibilizza sempre più persone, insinuando dall’altra parte, tra i leader e i recruiter aziendali, una certa preoccupazione. Non senza motivo. 

Se fino a qualche tempo fa consultare i criteri ESG, quelle tre macro aree – Environmental (ambiente), Social (società) e Governance – che insieme al resto costituiscono lo scheletro di un’azienda, era una prerogativa per lo più di investitori intenti a decidere se finanziare o meno un determinato progetto, ora sono gli stessi lavoratori a interessarsene, per capire quanto quell’azienda sia vicina o lontana ai propri valori e ideali. 

Significa che mentre la campagna pubblicitaria di turno spiega quanto il “verde” e l’inclusione siano in cima alle priorità dell’impresa, dall’altra una rapida occhiata ai valori dei parametri ESG svela quanto di green e di etico ci sia effettivamente nelle sue politiche. E quanto, dunque, insegua o meno pratiche commerciali discutibili.

Informazioni preziose che incidono per molte persone sulla decisione di accettare o meno un’offerta di lavoro o di lasciare la scrivania. E che importano soprattutto ai dipendenti più giovani – per intenderci quelli dai quarant’anni in giù , persone che hanno mostrato una maggiore vicinanza e propensione alla lotta al cambiamento climatico all’interno di un contesto lavorativo rispetto a chi è venuto prima. 

Un recente sondaggio della società KPMG – condotto nel Regno Unito alla fine del 2022 su quasi seimila adulti tra impiegati, studenti, apprendisti e neodiplomati – ha evidenziato che l’importanza data a fattori ambientali, sociali e di governance (gli ESG di cui sopra) all’interno di un’azienda sta influenzando le decisioni lavorative di quasi la metà delle persone in età da lavoro del Regno Unito. 

Nello specifico, fra gli intervistati, per quasi uno su due (quarantasei per cento) è importante che l’azienda per cui lavora dimostri un impegno nei confronti degli ESG, mentre uno di loro su cinque – uno su tre nella fascia 18-24 anni – ha rifiutato un’offerta di lavoro perché all’interno della società tali valori (sempre gli ESG) non erano in linea con quelli personali. 

Anche se i dati dicono che sono i lavoratori di età compresa tra i 25 e i 34 anni ad essere più propensi (cinquantacinque per cento di loro) a valutare gli impegni climatici e sociali della società che assume (dopo di loro si piazza la fascia 18-24 anni con il 51 per cento e quella 35- 44 anni con il 48%), l’impatto ambientale e le politiche salariali dignitose hanno contato molto e contano nella ricerca di un nuovo impiego per – più o meno – tutti. 

Principi per cui molte persone sarebbero disposte a scendere a compromessi con il capo. Un sondaggio condotto nel 2021 dalla Yale School of Management su duemila studenti iscritti a ventinove business school differenti (e sparse in tutto il mondo), ha rilevato che più della metà dei partecipanti accetterebbe stipendi più bassi purché l’azienda si dimostri responsabile nei confronti dell’ambiente. 

Un cambio di rotta che non coinvolge solo quella fetta di popolazione che deve ancora entrare nel mondo del lavoro. Il Global energy talent index si è accorto che negli ultimi diciotto mesi (il conteggio parte andando indietro dalla fine del 2022) il ventuno per cento della forza lavoro impiegata nel settore delle energie rinnovabili è in realtà arrivata da altri ambiti: a dirla tutta, quasi un terzo dall’industria petrolifera e del gas. 

Secondo Lucy Piper, sentita da Bloomberg, precedentemente impiegata nel settore viaggi e ora a capo di un centro (il Work for climate) che indica le strategie più efficienti per influenzare e accelerare le iniziative di decarbonizzazione sul posto di lavoro, «le aziende sono fondamentali per il clima. Hanno il potere di ridurre rapidamente le emissioni e possono mobilitare risorse significative. Definiscono anche lo spazio politico per la discussione climatica in tutto il mondo». E, visto che non tutti possono permettersi di lasciare un lavoro in tronco o rifiutare un’offerta, «i dipendenti dovrebbero comunque usare la loro influenza per cambiare il modo in cui opera l’azienda in cui sono». 

Un intervento di fondamentale importanza visto che, nel 2018, la sola industria statunitense (per citarne una) è stata responsabile di più di un quinto delle emissioni totali di gas serra registrate sul territorio. Nel resto del mondo le cose non sono andate in maniera troppo diversa. Uno dei problemi principali è quello che Eumetra ha raccontato nella sua indagine, che ha coinvolto ottocento imprese attive prevalentemente nel settore dell’industria, dell’edilizia, del commercio e della ristorazione in tutto il territorio italiano: l’ottantatré per cento delle aziende non ha ancora un piano pratico per affrontare il tema della sostenibilità.

Un dato che non deve scoraggiare, ma che piuttosto dovrebbe aprirci gli occhi sul potenziale di cui disponiamo. Le aziende rimangono in piedi e fanno quello per cui sono nate perché qualcuno lavora per loro. Un nostro parente, una persona amica, il vicino di casa, noi. Le scelte che facciamo, ciò in cui crediamo e quello per cui lottiamo, possono influenzare il modo in cui il mondo si muove, quello di cui discute, come se ne occupa. Rinunciare a un posto di lavoro – quando possibile e se ci sono le condizioni per farlo – perché troppo inquinante, è una scelta significante. 

D’altronde, come ha detto John McCalla-Leacy, responsabile ESG di KPMG, «per le aziende la direzione di marcia è chiara. Entro il 2025, il settantacinque per cento della popolazione attiva sarà costituita da millennial, il che significa che le aziende dovranno avere piani credibili per affrontare il tema ambientale se vogliono continuare ad attrarre e trattenere personale». Il motore di tutto il sistema imprenditoriale. 

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