Barocco e cornucopieItinerari del palato nell’isola che si mangia

Dall’ex putìa ro vino di Noto, dove gustare la tradizione rinnovata, alle suggestioni d’infanzia raccolte in un menu di Accursio Craparo, la zona Sud orientale della Sicilia è un patrimonio di sapori da scoprire

Foto di Mark Lewis su Unsplash

Gennaio 1693: un mega-terremoto colpisce la Sicilia sud-orientale, distruggendo decine di città e paesi. I viceré spagnoli non perdono tempo e assoldano per una tempestiva opera di ricostruzione maestranze e architetti locali e in poco tempo tutto ritorna come prima. O quasi. Sono Noto, Modica e Ragusa, infatti, le città che subiscono un restyling quasi totale e, visto che il Barocco, in architettura, in quegli anni va fortissimo, le magnifiche tre diventano immediatamente i testimonial più prestigiosi del nuovo stile che va alla ricerca dell’inaspettato e dello stupefacente in uno sfoggio di abilità tecniche, forme fantastiche ed esagerate, segnate da una vena di follia. Sorgono nuove chiese, nuove case, nuovi palazzi dove scalpellini e scultori creano veri e propri capolavori. Poveri perché non c’è tempo di rifornirsi di marmi pregiati e allora si ricorre alla pietra locale, il tufo, dalle incredibili sfumature dorate. Ma belli, perché tutto risulta spettacolare, teatrale, con soluzioni a effetto: i prospetti dei palazzi si riempiono di cornucopie ricolme di frutta, le mensole dei balconi si popolano di figure mostruose, sulle facciate di chiese e conventi spuntano mostri e demoni, sante in estasi o paffuti angioletti.
Un angolo di isola charming (come viene definito negli Stati Uniti dopo il suo inserimento nella World Heritage List dell’Unesco) dove non potevano mancare Le Soste di Ulisse.

Prima tappa, Noto
Prima tappa? Noto, senza dubbio perché nel 1693 viene rasa al suolo completamente e per la costruzione della new town viene scelto un nuovo sito, un pendio rivolto verso il mare. Si spiega così la presenza, in centro città, di vie ripide e scalinate che trasformano i dislivelli e le pendenze in altrettanti effetti teatrali. Chiese, monasteri e palazzi sono costruiti ai lati di una lunga via, il Corso, dove non mancano tre scenografiche piazze: piazza dell’Immacolata, con la chiesa di San Francesco e la parte terminale del Monastero del SS. Salvatore riconoscibile per la fuga di grate panciute e per la forma del campanile, tutto un gioco di ondulazioni ricavate nella pietra; piazza del Municipio dove si alternano edifici profani (Palazzo Ducezio e Palazzo Landolina) ed edifici sacri (la Chiesa Madre e il Palazzo Vescovile); piazza XVI Maggio con il piccolo giardino della Villetta Ercole e la chiesa di San Domenico dalla insolita facciata convessa. Anche Noto, quasi superfluo specificarlo, è uno dei pit stop delle Soste di Ulisse: tra vicoli e piazze scenografiche ecco il Ristorante Crocifisso, che una volta era la classica putìa ro vino, cioè un’osteria con cucina. Poi, ai fornelli, è arrivato Marco Baglieri, figlio dei due osti, la musica è cambiata e il ristorante è diventato l’espressione di una cucina del territorio, a chilometro zero, che esalta i sapori di terra e di mare con una strizzatina d’occhi al fine dining. Ecco, per esempio, che un classico cibo di strada (Pane e panelle) viene rivisitato con crudo di gambero rosso, ricotta al limone e lattughino, la tuma persa (uno dei formaggi isolani a rischio di estinzione) va a impreziosire i Tortelli di cipolla brasata al ragù di coniglio e salsa di tenerumi e come dessert vengono proposte le “dolci espressioni” della Pizzuta (la celebre e inimitabile mandorla di Avola): cremoso, biscotto financier, croccante all’eclat d’or, mandorla sabbiata, vellutata e gelato.

Ma anche con Vicari non si scherza: a due passi da via Nicolaci, la strada della celebre Infiorata. «Nella storia di ogni cuoco bolle la pentola di una nonna» dice Salvatore Vicari, chef e patron del ristorante. «Quella della mia mi profuma ancora di pane di casa impastato col cruscenti e del richiamo fumoso del forno tra le quattro mura di una vecchia stanza». Quella della cucina di Salvatore è una specie di formula magica, fatta di grande responsabilità ma anche di sano divertimento. Nel menu, quindi, alternanza di mare e di terra, note identitari del territorio e ricordi delle ricette della nonna come nei Tortelli di ricotta di pecora (rigorosamente tirati a mano e serviti su latte di mandorle di Noto arricchito con salvia e clorofilla di prezzemolo) o nella Parmigiana di melanzane con spuma di tumazzu, pomodori macerati e seccati in forno, sciroppo di melanzane.

E per la notte c’è la Masseria della Volpe, circondata dalla campagna siciliana. Sulla cima di una collina affacciata sul Val di Noto è, in realtà, un piccolo borgo rurale, ristrutturato per garantire il comfort e il fascino di un boutique hotel in cui rifugiarsi e ritrovare l’atmosfera e il calore di casa. Relax, cura del corpo e dello spirito, attenzione per materie prime bio sono assicurate: tutto intorno un parco di ulivi e agrumi e il panorama mozzafiato di un territorio magico e maliardo.

Masseria della Volpe

Seconda tappa, Modica
La seconda tappa, per gli ulissidi del terzo millennio, è a Modica, “la città in forma di melagrana spaccata”, secondo la geniale definizione dello scrittore Gesualdo Bufalino: praticamente invisibile da lontano perché i suoi edifici sono arroccati lungo i fianchi di una specie di canyon. Monumento-culto di Modica è la chiesa di San Giorgio, alla sommità di una gradinata interrotta da terrazze e logge, aiuole e giardini pensili. Una facciata solenne e sontuosa e un interno, ovviamente, barocchissimo con stucchi che riempiono transetti e navate, un altare d’argento intarsiato, un grandioso polittico sull’altar maggiore popolato di santi, martiri e madonne. Su corso Umberto I, poi, c’è la chiesa di San Pietro con le statue degli Apostoli (i Santoni li chiamano qui) e dalla facciata stranamente sobria ma impreziosita da statue di Cristo, della Madonna e di santi. Dal sacro al profano, subito dopo la chiesa di San Pietro, ci sono i più bei mensoloni di Modica: quelli di Palazzo Tedeschi gremiti di sirene musicanti, delfini e mascheroni. Dici Modica e pensi subito al suo cioccolato. Riscoperto più di un secolo fa dalla Antica Dolceria Bonajuto (la madre di tutte le cioccolaterie di Modica) è un cioccolato speciale perché speciale è la sua lavorazione: i semi di cacao, infatti, vengono frantumati a freddo insieme a cannella, vaniglia e zucchero fino ad ottenere una pasta dove sono ancora perfettamente individuabili i cristalli di zucchero. Il gotha dolce di Modica, però, comprende anche la cedrata, a base di miele e di bucce di cedro, e la cobaita, un croccante di semi di sesamo.

Altra sosta golosa? Quella da Accursio, ristorante ecochic ospitato nei bassi di un antico palazzo nobiliare ai piedi della scalinata di San Pietro. Il menu pensato da Accursio Craparo (è lui il deus ex machina del locale) è un viaggio che rispetta la tradizione isolana ma, insieme, la reinterpreta radicalmente. Suggestioni dell’infanzia e ispirazioni dell’esperienza sono presenti nel Paté di ceci con ortaggi, erbe e spezie, nella Spremuta di Sicilia, pasta di grano duro con acciuga, bottarga di tonno e finocchietto selvatico o nel Baco da Seta, un cannolo con cremino alle spezie, zucchero filato e gelato al Vecchio Samperi.

Accursio Craparo, Spremuta di Sicilia, pasta di grano duro con acciuga, bottarga di tonno e finocchietto selvatico

Terza tappa, Ragusa
Ed ecco, ancora nel Triangolo d’oro del Barocco, Ragusa con una sorpresa: la città non è una sola, ma due. Merito (colpa?) delle dispute tra i ragusani dopo il terremoto del 1693: una parte della popolazione (i “sangiorgiari”, devoti di San Giorgio) non vuole abbandonare il colle dove sorgeva la chiesa del loro patrono. Non sono di questo parere i “sangiovannari” che decidono di ricostruire la chiesa di San Giovanni da un’altra parte. Ed allora la città sangiorgiara, Ibla, ha come confini ideali le maioliche luccicanti del campanile di Santa Maria dell’Idria e il Giardino Ibleo a strapiombo sul vallone sottostante. E poi campanili, pinnacoli, la grandiosa mole della chiesa di San Giorgio. Più moderna, invece, Ragusa, la sangiovannara, con lunghi viali alberati e terrazze dalle quali si gode un panorama di Ibla davvero unico. E in piazza San Giovanni sorge il Duomo con la facciata decorata da sculture, da colonne oversize, da lesene bugnate.

Sono diverse le mete-culto dell’Ulisside 2.0. A Ibla, si dorme alla Locanda Don Serafino: ospitata in un palazzotto del ’700, è un piccolo albergo di charme che regala alcune chicche come la junior suite con un arco gotico del ’300 e la Suite della Roccia con il bagno ricavato in una grotta naturale. E per la tavola? Il ristorante (stesso nome e stesso charme dell’hotel) è ricavato nelle grotte scavate nel dirupo roccioso su cui si è sviluppata Ibla. La mise en place è ineccepibile: lino, cristalli, luci e sedute griffate Philippe Starck.

Locanda Don Serafino

E poi arrivano le creazioni di Vincenzo Candiano legate al territorio e aperte alle contaminazioni, frutto della passione per la scoperta, l’innovazione ma anche delle esperienze a spasso per il globo come nell’Agnello farcito dei ricordi di un viaggio ad Istanbul, dove l’agnello siciliano incontra le spezie tipiche del sugjuk, l’insaccato tipico turco.

Locanda Don Serafino, Agnello farcito dei ricordi di un viaggio ad Istanbul
Votavota, Spaghetto affumicato burro e alici

Sempre a Ragusa c’è Villa Carlotta, una fattoria ottocentesca, ristrutturata recuperando i caratteri tipici (archi, volte, pietre a vista) dell’architettura rurale della masseria ragusana. Nelle camere e negli spazi comuni, poi, sono mixati design mediterraneo e forme retrò, luci d’autore e sedute griffate.
E per una cena pieds dans l’eau si va a Marina di Ragusa, da Votavota, regno incontrastato dello chef Giuseppe Causarano e del pastrychef Antonio Colombo che celebrano la cucina della loro Sicilia, ma che non rinunciano alle contaminazioni con materie prime (ortaggi e pesce, carni e spezie) scoperte nei loro viaggi e riproposte nelle loro preparazioni, come lo Spaghetto affumicato burro e alici o la rivisitazione della Tarte Tatin (mele speziate, mousse alla vaniglia, pasta sfoglia e gelato allo yogurt).


Caltagirone, per finire, in bellezza.
Caltagirone deve di sicuro ringraziare gli anni della dominazione araba quando i mastri ceramisti locali impararono, sotto la guida dei loro colleghi del Maghreb, la lavorazione della ceramica a smalto. La coloratissima terracotta, infatti, è una delle note distintive della città, un baluardo di classicità ma anche una icona pop che si si propone esplicitamente di sbalordire, divertire e lusingare chi si avventura tra vicoli e scalinatelle. È qui, infatti, che fioriscono decine di botteghe di artigiani pronti a mostrare (il bello della diretta!) come nascono i loro piccoli capolavori. Capolavori che fanno da compendio ragionato e compatto ai balconi scolpiti, agli arabeschi, a chiese e oratori che raccontano la storia barocca della città. È a Caltagirone che nasce Coria, a una manciata di minuti dalla famosa scalinata di Santa Maria del Monte, foderata di piastrelle coloratissime. Ideatori del progetto Coria sono Domenico Colonnetta e Francesco Patti che, dopo anni di esperienza nelle cucine di prestigiosi ristoranti, hanno deciso di scommettere sulle loro capacità e deliziare i palati più esigenti, rivisitando la sicilianità in chiave moderna. Come nei Cavulicelli alla brace, crema di castagne e tartufo di Palazzolo Acreide, nel Piccione con crema di melanzana bruciata, melograno, porro fondente, fegatini al Marsala e cardoncelli, nella Guancia e petto di suino nero al BBQ, millefoglie di patate fondenti, sanapone, salsa affumicata.

Coria, Piccione con crema di melanzana bruciata, melograno, porro fondente, fegatini al Marsala e cardoncelli

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