C’è stato un tempo in cui i ragazzini che non sanno niente eravamo noi. Noi quelli per cui un cantante nasceva solo se passava sui nostri canali, se appariva nei nostri giornaletti, se ci colpiva il ritornello nuovo pur ignorando decenni di ritornelli vecchi.
Per me Tina Turner nasce a quarantaquattro anni, quando io ne ho undici e lei canta quella canzone così spettacolare che poi ci intitoleranno i documentari su di lei, che poi resterà uno slogan nei decenni, che poi molte vite dopo capiremo essere una grande verità dalla quale non eravamo state capaci di imparare.
What’s love got to do with it, cosa c’entra l’amore, chiedeva Tina Turner, all’epoca non ancora per tutti «quella picchiata dal marito», riduzione a figurina vittimaria che poi avrebbe fatto slittare anche la domanda della canzone: non stava dicendo, come una Barbara D’Urso volenterosa di liberarti dal marito violento, che chi ti ama non ti picchia; stava dicendo che quella storia di cui cantava era roba di lussuria, mica d’amore. Not love, but a second-hand emotion. Stava dicendo che il desiderio andava benissimo, purché non lo scambiassimo per altro: eravamo troppo piccole per capirlo.
Era la prima volta che quelli della mia generazione la vedevano, tutti, anche quelli che poi da grandi hanno deciso di darsi un tono e dire che vuoi mettere gli anni dell’R&B, mica quelle schifezze commerciali degli anni Ottanta. Era, anche, la prima volta che vedevamo una vecchia con le gambe da ragazza, giacché tutto è relativo e per noialtre alle scuole medie un’ultraquarantenne era decrepita, e già «La vita comincia a quarant’anni» pareva un concetto sovversivo: non sapevamo che ne avremmo avuti quaranta (e quelli a seguire) in un secolo in cui le ottantacinquenni sono più in forma delle trentenni e le donne (e un po’ anche gli uomini) sono condannate a mantenersi appetibili fino alla tomba.
Tutto è relativo, e quando l’altroieri Mick Jagger ha ringraziato Tina Turner per averlo aiutato tanto quando lui era giovane ho voluto credere che si riferisse a quel duetto di metà anni Ottanta, quando di anni Jagger ne aveva quaranta, che se stai per compierne ottanta ti sembrano pochissimi.
Nel 1997 Rolling Stone mette in copertina Tina Turner assieme a due delle mie preferite di quegli anni: Courtney Love e Madonna. La Love si è liberata di quella coperta bagnata che doveva essere il marito, è dimagrita (che è una scorciatoia efficace per sembrare eleganti), ha imparato a conciarsi come una signora e non come una scappata di casa (lei e Madonna hanno la stessa stylist), un anno dopo farà il suo più bel disco. Madonna è Madonna, ha trentanove anni ed è al massimo del suo splendore, pure lei l’anno dopo farà il suo miglior disco (nel 1998 dev’esserci stato un allineamento di pianeti). Tina Turner è una venerata maestra che sta lì a benedirle, una decrepita cinquantaseienne la cui presenza deve dare una qualche gravitas alla copertina, ma soprattutto una di cui noialtre venticinquenni imbecilli possiamo trasecolare: visto che gambe, alla sua età.
A settant’anni mia nonna metteva la dentiera nel bicchiere da non so quanti anni, sono nata che ne aveva sessantadue e non ricordo d’averla mai vista non vecchia, non decrepita, non mia nonna. A settant’anni Tina Turner organizza il suo tour d’addio, e i giornalisti la intervistano straniti. Ma perché è stufa di mettersi la minigonna e la parrucca? Perché non ne può più di sgambettare su un palco? Perché dà l’addio alle scene? È il 2009, da We are the world (un altro dei modi in cui noi allora ragazzine l’avevamo scoperta) sono passati venticinque anni, il secolo è cambiato: le settantenni hanno perso il diritto a mettere la dentiera nel bicchiere e riposarsi le gengive.
Quando ho preso appunti guardando “Air”, il miglior film dell’anno, mi sono annotata che come sempre per gli americani esiste solo l’America: i primi minuti del film, quelli che ci dicono forte e chiaro «siamo nel 1984», non contengono Fotoromanza o Vasco Rossi, né Benigni e Troisi. Ha senso: come tutte le storie universali, “Air” è molto personale, e quei minuti lì sono plausibilmente il 1984 di Ben Affleck, che è mio coetaneo ma è cresciuto in Massachusetts, e quell’anno ha plausibilmente passato il tempo come vediamo in quei minuti; col cubo di Rubik e con l’A-Team, col Nintendo e con Eddie Murphy, con “Ghostbusters” e con Reagan, coi telefoni a bottoni (che ci parevano un’avanguardia di modernità, rispetto a quelli a disco) e con Supercar, coi Dire Straits e con Springsteen.
Non c’è, nella rievocazione temporale, Tina Turner, e l’omissione potrebbe essere dovuta al fatto che Affleck ha, come molti cinquantenni, deciso di darsi un tono e di dire che lui Tina la preferiva prima che diventasse commerciale. Ma potrebbe anche essere che quei minuti lì sono fatti per darti un’atmosfera, mica per rappresentare un compendio enciclopedico del 1984: non c’è neanche Prince, ed è improbabile che il giovane Affleck non fosse quell’anno inciampato in Purple Rain. (Magari non ha ottenuto i diritti delle immagini né di Prince né di Tina).
“Colazione da Tiffany”, il libro, esce quasi in contemporanea all’incontro di Anna Mae Bullock e Ike Turner. La protagonista immaginaria di Truman Capote, Lulamae, si fa chiamare Holly Golightly per liberarsi del suo passato di provincia. Nella realtà, Ike decide che Anna Mae si chiamerà Tina Turner per spogliarla d’un’identità e trasformarla in una sua appendice.
È la fine degli anni Cinquanta, le ottantenni non hanno gambe da schianto, Mick Jagger suona Muddy Waters in garage, e nessuno, neanche quel marchio di gioielli con le confezioni verde acqua, può immaginare che un secolo dopo tutti loro avranno ancora un solido posto nel nostro immaginario, perché quel che hanno fatto senza troppo annunciarlo è stato costruirsi l’immortalità.