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C’è un triangolo rettangolo, in Emilia-Romagna, tra San Martino del Rio, la periferia di Bologna e quella di Ferrara, all’interno del quale si nasconde un patrimonio dal valore smisurato per la storia della moda italiana, ma non solo. Siamo lontani dal Mare Adriatico e dalla sua mitologia, che ha fornito tanto materiale alla nostra cinematografia, sui livelli più disparati: dai Vanzina alle produzioni Netflix adolescenziali, passando per la storia d’amore travagliata e proibita tra Alain Delon e una sua studentessa, in La prima notte di quiete di Zurlini (1972). Sullo sfondo, Rimini con il mare in tempesta. Qui il panorama è diverso, seppur ugualmente affascinante. Terreni agricoli a perdita d’occhio (le statali in primavera sono quasi deserte), ogni tanto un immenso casale si scorge in lontananza, circondato e protetto da micro-boschi di pioppi, querce e aceri.
L’intervento dell’uomo ha dato un ordine e delle direttive a una natura placida, quieta, esprimendosi con una mano geometrica, ma delicata. L’unica eccezione a questo modus operandi coscienzioso è poco fuori da questo triangolo, nella stazione dell’Alta Velocità Mediopadana. Il futuro al centro di un eterno oggi, uguale allo ieri, con quella costruzione avveniristica firmata da Santiago Calatrava. 457 portali geometricamente differenti in acciaio e calcestruzzo bianco che conferiscono alla struttura una silhouette sinusoidale, un effetto onda. Una stazione della ferrovia che sembra la fermata di uno space shuttle in un film su universi alternativi e ben più tecnologici.
Nel resto del perimetro, però, le fermate degli autobus sono arredate da un mobilio urbano fai-da-te, molto meno futuribile: in mancanza delle banchine in metallo sulle quali appoggiarsi nell’attesa, sotto le tettoie in lamiera, qualcuno ha lasciato delle sedie in plastica bianca, di quelle da esterno, che portano evidentemente i segni degli anni e dell’esposizione alla luce, ma che nessuno ha mai portato via, consapevole della loro necessità. Si contendono il posto all’ombra con una vecchia bici parcheggiata lì, senza catena, forse di qualcuno che si è fermato per pranzo alla trattoria dall’altra parte della strada, una costruzione in mattoni rossi dall’aria accogliente.
È la provincia magica, mistica, che pure ha dato i natali a corpi anomali, note stonate in una melodia monotono, guizzi di genio e follia, dai CCCP – che oggi, a rivedere le loro performance degli anni ottanta, sembrano avanguardia pura -, a Luigi Ontani, il pittore azionista che ha trasformato la sua vita in un’opera d’arte, travestendosi da Bacco, Dante e San Sebastiano, girando per le strade del suo piccolo paesino, Vergato, a quarantadue chilometri a sud di Bologna, sfondando con una certa allure dégagé il muro del kitsch. È la provincia che ha narrato Pier Vittorio Tondelli, un giornalista e scrittore sinonimo del postmoderno, con quel suo romanzo, Altri libertini, pieno di bestemmie, sesso e violenza, che nel 1980 fu sequestrato per un anno dal procuratore della Repubblica dell’Aquila. È la provincia che oggi, nella moda, racconta Luchino Magliano. Un posto di donne e uomini a loro agio con l’idea di “esser contro”, che poi a vedere oggi i loro risultati, in realtà, erano semplicemente avanti anni luce rispetto agli altri.
È il caso di Deanna Ferretti Veroni, anche detta “Miss Deanna”, come il maglificio fondato insieme al marito nel 1971 e che fino al 2001, quando è stato venduto al Gruppo Armani, ha fatto suonare a festa le macchine da cucire, producendo magliette in tricot e abiti in maglia rifiniti da bordi in finta pelle per Kenzo, Martin Margiela, Marras, Cover, Armani, Krizia e Yves Saint Laurent. La leggenda vuole che Deanna, bob color miele, fronte alta ed espressione decisa, realizzasse modelli in casa con una macchina comprata come investimento. Nel cortile della loro abitazione era stata costruita una stazione di servizio, per diversificare le attività, in un momento nel quale suo padre si era ammalato. Deanna dava il cambio ai suoi due fratelli minori, nell’ora di pranzo, passando dalla precisione della macchina per cucire alla ruvida praticità della pompa di benzina. Quando si ferma una macchina di due inglesi diretti a Milano, in avaria, Deanna porta la macchina da un carrozziere poco distante e accompagna i due alla stazione con la sua Fiat Topolino. Niente mancia, grazie, non lo si è fatto per quello. Un mese dopo, i due tornano a ritirare l’auto con una scatola di cioccolatini per lei, scorgendo nel retro della casa alcune delle maglie da lei realizzate: sono i titolari di una catena di negozi legata ad Harrod’s e le propongono di avviare una produzione per loro. Inizierà così una carriera internazionale di grande successo, conoscendo e lavorando con couturier e maestri dello stile entrati nella storia.
Nel 2004 gli spazi del Maglificio a San Martino del Rio sono stati parzialmente convertiti per ospitare la Modateca Deanna, un centro internazionale di documentazione sulla moda, seguito dalla figlia di Deanna, Sonia. Uno spazio gigantesco, di oltre tremila metri quadri, che ospita oggi circa ottantamila capi, un archivio in continua evoluzione che annovera pezzi di Claude Montana, Neil Barrett, Dries Van Noten, Yohji Yamamoto, solo per citarne alcuni. Votato alla praticità e alla condivisione delle eccezionali competenze di Miss Deanna c’è anche un Archivio tecnico, che raccoglie prove punti, ricami, applicazioni, tinture e stampe, accessori della confezione di bottoni e zip, oltre a circa ventimila magazine di moda, costume, design, arredamento, architettura e viaggi. Un patrimonio visitabile da operatori del settore, scuole di moda, designer e studenti, con un occhio di riguardo a questi ultimi. Dal 2015 infatti è attivo, grazie alla collaborazione con Accademia Costume e Moda, il Master in Knitwear creative design, che vuole dare non solo le basi culturali, ma anche quelle pratiche e organizzative, nel miglior stile Miss Deanna, per dialogare con i laboratori produttivi, conoscere artigiani e professionisti del settore, sviluppare progetti in collaborazione con i brand più famosi.
Di altro tono, è invece l’archivio Wp, anche se pure in quel caso a metterci lo zampino è stata una donna, volitiva e coraggiosa come molte delle sue corregionali. Cristina Calori, figlia di Giuseppe, stimato imprenditore con questi blazer dai colori accesi come la personalità degli emiliani e la sigaretta accesa.A ventitré anni, con un diploma al liceo artistico, decide di andare negli Stati Uniti, e, nella decade di una moda edonista, i primi Ottanta, scopre oltreoceano la storia passata del continente americano e il futuro dello streetwear e dell’abbigliamento tecnico che negli anni successivi impazzerà grazie a lei. Se brand come Vans, Barbour, Baracuta e Woolrich, sono stati distribuiti in Italia, il merito è solo della sua visione.
Parallelamente alla creazione della società Wp Lavori in Corso, nel 1982 nasce già il progetto dell’archivio, che oggi, digitalizzato, è il regalo dell’azienda ai suoi aficionados per festeggiare i quarant’anni di storia. Ottantamila capi sono appesi su delle relle che si sviluppano in altezza, in un capannone alto più di dieci metri, posizionato accanto all’headquarter bolognese di Wp. In angoli dedicati, appesi su dei manichini, tra i tavoli da lavoro dove un team di ragazzi giovani esamina e cataloga i pezzi, ci sono i gioielli della corona: un cappotto psichedelico disegnato da Stephen Sprouse (l’artista che poi collaborerà con Marc Jacobs creando con lui le borse Louis Vuitton macchiate dalle scritte spray, ad oggi un cult) e una giacca in collaborazione tra Filson e Junya Watanabe con strisce catarifrangenti sul retro. Per ora destinato alla consultazione da parte degli operatori del settore, stilisti o studenti (sia online sia dal vivo, prendendo un appuntamento sulla piattaforma dedicata) si cammina tra i corridoi, respirando l’aria del secolo scorso: il pezzo più antico risale al primo dopoguerra, con una giacca montone di Spiewak, fornito di cartella colore originale con descrizione tecnica della collezione.
Recuperati tramite compravendite private o acquisti ai mercatini, i capi sono di brand variegati: non ci sono solo quelli che appartengono al portfolio di Wp, con le ultime acquisizioni di Spiewak e Filson, ma anche di altri marchi, coerenti con il percorso dedicato all’abbigliamento tecnico, ma non solo. Un archivio vivo e in continua espansione. Alcuni degli acquisti del team dedicato alla gestione del patrimonio storico, però, non entrano nell’archivio, ma vengono inseriti in un nuovo circolo virtuoso all’interno dei negozi WP. A spiegare meglio il processo è Michele Calori, fratello di Cristina, addetto alla comunicazione e digital media di Wp.
«Nell’attività di archivio che sta facendo Gaia (responsabile dell’archivio e figlia di Cristina Calori, ndr) con il suo team, oltre a recuperare pezzi per ampliarne la portata – un’attività senza fine – si prendono anche dei pezzi per cercare di rivenderli e dare una opzione di second hand all’interno del negozio. Un processo che è iniziato in concomitanza con i festeggiamenti dei quarant’anni, momento nel quale sono stati modificati anche gli store, inserendo delle vere e proprie aree dedicate al vintage. Sono tutti pezzi one-of- a-kind, un’iniziativa alla quale il cliente sta rispondendo molto bene. Un approccio, questo, che fa parte dei valori Wp: guardare alla storia con un’ottica contemporanea, cercare di mescolare gli stili per creare qualcosa di unico».
Una delle ultime acquisizioni, è però apparentemente dissonante rispetto alla filosofia tutta dedita all’outerwear e all’abbigliamento tecnico. Si parla qui di parte dell’archivio Ferrè. A spiegarne il motivo è sempre Calori: «Lo abbiamo fatto perché se ne è presentata l’occasione al tempo quando il marchio passò di proprietà e a Cristina venne offerta parte dell’archivio. Non ci ha pensato due volte, sono pezzi unici da sfilata, di eventi, haute couture, ma non solo quello. C’è anche l’archivio dei libri, ci sono i bozzetti delle sfilate, vestiti creati ad hoc per determinate celebrities, con delle lavorazioni specifiche, vestiti piene di perline con ore di lavoro dedicate, che spesso portiamo anche in giro quando facciamo delle esposizioni, dal Pitti al Premiere Vision. Riceviamo molti complimenti, anche se non sono ovviamente diretti a noi, il grande genio di Ferrè non ha bisogno di spiegazioni».
Tra giacche da caccia con tasche sul retro dove riporre la cacciagione, e gilet in mesh da pesca con mosca attaccata sul petto, la risposta del pubblico giovane – che oggi è particolarmente interessato ai brand dell’outdoor, storicamente poco italiani – è entusiasta e si aggiunge alla clientela classica di appassionati di solito over trenta. «In un momento come questo dove siamo circondati da realtà fast fashion, l’esperimento con il second hand a noi va molto bene, anche perché brand come Barbour o Filson hanno una qualità molto alta e durano nel tempo. Filson, ad esempio, fino a qualche tempo fa garantiva i suoi capi a vita, che è una cosa impensabile oggi: è meglio una loro giacca vecchia che qualsiasi altro pezzo nuovo. Lo hanno capito anche i giovani e questa cosa ci regala molta soddisfazioni».
I giovani in Italia, però, devono molto a un altro uomo, che proviene da poco distante e che già negli anni Ottanta era stato capace di vedere un futuro che pochi avevano immaginato: Luca Benini, il guru italiano dello streetwear, il primo a credere nelle potenza di un immaginario che a noi non apparteneva (storicamente) e che però parlava la stessa lingua delle controculture degli anni Settanta e Ottanta, del punk e della new wave. Capello corto, occhio azzurro, in denim scuro e maglione over che cade sul corpo nervoso, un foulard blu arrotolato al collo, Luca Benini ha trasformato il suo quartiere generale fuori Ferrara nella fabbrica dei desideri della Gen Z. Da quando, con l’incoscienza della gioventù e la musica punk nelle orecchie, ha portato per primo in Italia un brand come Stussy, ne è passata di acqua sotto i ponti. “Slam Jam”, la sua creazione, non è solo un negozio a Milano con occasionali pop up frequentatissimi tra Parigi e Tokyo, quanto un sinonimo di un approccio alla vita e all’abbigliamento. A voler collaborare con questo incubatore di idee post-moderno ribelle ma dall’appeal minimalista, come la sua sede – tutta uffici specchiati e bianco accecante, con giovanissimi ragazzi in felpe e sneaker che ascoltano musica dalla collezione di vinili o osservano con il piglio di archeologi del costume le felpe di Alyx e i pantaloni camo di OAMC – sono i brand nell’empireo dei desiderata della Gen Z. C’è Nike, con la quale Slam Jam ha realizzato delle speciali Air Force 1, ma anche Clark’s, solo per citarne un paio. E proprio in quegli archivi ci si ritrova al cospetto di Benini, che pur avendo sostanzialmente portato per primo lo streetwear in Italia, ha l’attitudine di chi, in fondo, non si sente di aver fatto niente di che.
Viene da Voghiera, un paesino del ferrarese di poco più di tremila persone, che negli anni Sessanta sono poco più di mille, con una stradina sterrata che passa nel mezzo. Prende solo radio1, radio 2, e radio Capo d’Istria. Già da bambino si interessa agli scampoli di tessuto in un paese di sarte e magliaie, vuole farsi fare le camicie, a sette/otto anni declama a sua madre un desiderio: «voglio vendere vestiti». Un inizio scritto nei desideri folli di un bambino che Benini ha sempre considerato un dono. Una determinata lucidità, la sua, nell’aver sempre saputo cosa voleva fare, a differenza dei suoi amici, ancora indecisi su quale strada intraprendere. Cresciuto poi con la passione della musica, facendo il dj ed essendo partecipante attivo della scena musicale dell’epoca, Benini non sapeva ancora che il suo percorso avrebbe avuto passi falsi e intoppi, tutti poi superati. È lui stesso a spiegarcelo. «Facevo il rappresentante come collaboratore per alcuni show-room importanti a Bologna negli anni Ottanta. Vendevano il fashion italiano, da Armani, Hilton, Enrico Coveri. Poi la musica di quel periodo, la new wave, mi ha portato “fuori”. Una volta, nel 1984, vado in show-room. Ero in fase di evoluzione, avevo un pantalone di Gianfranco Ferré e le creepers ai piedi, quindi ero molto confuso. Allora il titolare mi ha detto «scusa un attimo, ma bisogna che qui tu ti faccia delle lampade». A quel punto ho pensato «è meglio che esco da questo posto». Nonostante Venturi, Ferrè, Coveri, insieme a Massimo Osti mi abbiano cambiato la vita nei primi anni Ottanta, la musica e l’impatto culturale ed estetico che veniva da lì per me era più forte».
La prima importazione arriverà nel 1988, in un’epoca condizionata da un revival mod e skinhead che si era avvertita anche in Italia: Benini porta in Italia Londsdale (che di recente è riapparso sulle passerelle di Jordan Luca in una speciale collaborazione) grazie a un prestito di cinque milioni da parte del papà e a un viaggio rocambolesco a Londra, per consegnare a mano il denaro e verificare la qualità della merce (che infatti era stata stampata sbagliata e bisognerà aspettare giorni perché si rifaccia tutto per bene). Comunque, Benini non demorde, anche se i suoi colleghi inizialmente non prendono molto sul serio la sua selezione di marchi. «Dal punto di vista del mercato italiano dell’epoca contavo zero, facevo questi viaggi negli Stati Uniti e tornavo a casa con brand come Stussy, Extra large, creato da Sonic Youth e Beastie Boys, Fucked, e con tanti brand potenti a livello di energie. Arrivato qui mi dicevano «se vai lì perché non porti delle camicie di Ralph Lauren o dei Levis 501 usati?».
Da allora però di tempo ne è passato, e la commistione tra musica e il costume che si porta dietro, tra streetwear e fashion, Dries Van Noten e A Bathing Ape, ha fatto breccia nei guardaroba di molti altri ragazzi dell’età di Luca e poi anche più piccoli. L’idea dell’archivio è venuta a sua figlia, qualche anno fa, di fronte all’abbondare di ricordi dei quali Benini non sapeva decidere il destino: più un collezionismo personale che un archivio vero e proprio, secondo le sue parole, ci sono venticinquemila oggetti che distillano il racconto di una vita ribelle tra scarpe, accessori, magazine, vinili biglietti da visita, flyer, fotografie e tovagliette dei ristoranti dipinte da artisti suoi amici. Il luogo è visitabile su appuntamento, la digitalizzazione è in corso d’opera (adesso, andando sul sito archivioslamjam.com ci sono circa mille oggetti già disponibili).
Un luogo vivo, vibrante, che continua ancora oggi a fornire ispirazioni per nuove collab. È il caso di quella insieme a Gucci Vault e Alpha industries, con i quali Slam Jam ha creato un bomber dalla stampa zebrata, come la sua prima canotta comprata dal leggendario Crazy Boy a Milano nel dicembre 1978, data che Benini fa coincidere con l’origine del progetto. Oggi Benini è ancora lì, incurante del mondo fuori che lo ha tramutato nel guru spirituale dello streetwear: suona alle feste aziendali di Slam Jam, in qualche vecchia discoteca di provincia uguale a quando lui ha iniziato, e con la stessa curiosità con la quale rifugge la monotonia dei bpm e invece si immerge nella contaminazione dei generi, esplora ancora il mondo dell’abbigliamento, senza pregiudizi o preconcetti, come hanno fatto anche Deanna Ferretti e Cristina Calori, aprendoci con i loro archivi al loro universo. Un passato che, a ben guardarlo, potrebbe darci più di un’indicazione sul futuro.