La legge distingue fra mandanti, esecutori e complici. Ma la politica non si fa con la giurisprudenza, e ancor meno quando ne va di guerra e pace. Nessuno contesta che il regime bielorusso di Alyaksandr Lukashenka sia reo di sostenere lo sforzo bellico russo nella guerra criminale scatenata contro l’Ucraina. Da qui il 24 febbraio 2022 è partita l’offensiva che avrebbe dovuto decapitare il governo di Kyjiv, e ad oggi piccolo Paese funge da piattaforma di lancio per le forze aeree e missilistiche russe.
La Bielorussia ospita anche un numero imprecisato di unità meccanizzate russe, obbligando i difensori ucraini a impegnare parte delle proprie risicate risorse a salvaguardare il confine settentrionale. Per quanto improbabili, un’ulteriore offensiva russa (o un intervento bielorusso) metterebbe a repentaglio la capitale e le arterie di rifornimento occidentali.
Lo stanziamento di armi nucleari russe sul territorio della ex repubblica sovietica sembra poi essere l’ultimo chiodo nella sovranità del paese. Pur non alterando l’equilibrio nucleare sul continente, è un atto dall’importante valore politico che va a discapito delle misure di non-proliferazione messe in atto negli ultimi quarant’anni.
Un autocrate, due staffe
Se Minsk è ad oggi poco più di un vassallo del Cremlino, sarebbe comunque riduttivo pensare che il regime di Lukashenka sia privo di qualsivoglia autonomia. Per tutta la sua carriera da dittatore, il presidente bielorusso ha praticato un gioco pericoloso, alternando la vicinanza a Mosca con periodi di disgelo nei confronti dell’Unione europea.
Mosca e Minsk sono legate da un teorico “Stato unitario”, una sorte di unione soft che spesso viene evocata come possibile veicolo per una totale annessione della Bielorussia. Fino ad oggi, Lukashenka e i suoi sostenitori sono riusciti ad evitare questa prospettiva. Il dialogo a giorni alterni con Bruxelles, l’altalenante politica linguistica (ora favorevole all’uso del bielorusso, ora più benevola al russo) e l’allentamento ciclico della repressione interna sono elementi che dimostrano la volontà del regime di mantenere un certo spazio di manovra e non schiacciarsi sui capricci russi.
Oggi, Lukashenka sembra legato a doppo filo ai destini di Putin: i servizi di sicurezza russi e il massiccio sostegno economico e politico del Cremlino hanno avuto un ruolo fondamentale per puntellare il governo durante le proteste del 2020-21. In questo contesto, sembra impossibile pensare ad un allontanamento fra le due dittature.
Minsk è divenuta un paria a livello internazionale ed è spesso co-protagonista dei pacchetti di sanzioni scagliati contro la Federazione Russa; per il Cremlino, la Bielorussia rappresenta un territorio cruciale nello scontro con la comunità Euro-Atlantica, un cuscinetto dal quale può operare aggressivamente verso il Baltico, la Polonia e ovviamente l’Ucraina.
Segnali di stabilità
Eppure, non è un caso che proprio in questi mesi si sia fatta strada una discussione tutta incentrata sulla politica occidentale nei confronti della Bielorussia. Diversi esperti e interlocutori politici internazionali – il presidente francese in testa – sembrano convinti che una distensione nei rapporti con Minsk presenterebbe delle opportunità da non sottovalutare.
Da un lato, c’è il ragionamento puramente geopolitico (nell’autentico senso di geografia politica). Certo, le autorità bielorusse hanno fatto molto per sostenere lo sforzo bellico russo. Senza le ferrovie bielorusse, l’iniziale assalto contro Kyjiv non sarebbe stato possibile; Minsk ha ceduto parte del proprio equipaggiamento (guadagnando però sistemi antiaerei avanzati per ampliare il ventaglio di minacce contro lo spazio aereo Nato).
Ha fornito strutture di addestramento per le reclute russe e fornisce basi aeree e di lancio per la campagna di bombardamenti russa contro i civili ucraini. Ciò ha reso la Bielorussia anche un obiettivo di sabotaggi ucraini e di partigiani locali, oltre che un territorio funzionalmente integrato nel sistema di deterrenza nucleare russo.
Tuttavia, Lukashenka si è impegnato a non far coinvolgere le forze armate bielorusse nell’invasione dell’Ucraina, e non pochi vedono in questo fatto un’opportunità: la neutralità di Minsk (e un fronte più corto) avvantaggia Kyjiv e può essere garantita mantenendo una pressione costante ed evitando escalation che spingano la Bielorussia ancor più nelle braccia di Mosca, come evidenziato da Emmanuel Macron a inizio mese a Bratislava. Che l’Ucraina abbia mantenuto un ambasciatore a Minsk indica che questa posizione è parzialmente condivisa anche a Kyjiv.
Una opposizione divisa
Dall’altro lato ci sono sviluppi contradditori all’interno dell’opposizione democratica bielorussa, che al momento rimane divisa e condannata all’esilio. Con il rilascio e la cooptazione di alcuni prigionieri politici, il regime sembra essere riuscito a peggiorare le dinamiche che ad oggi impediscono ai diversi movimenti politici all’estero di mantenere un fronte unificato contro Lukashenka.
Sviatlana Tsikhanouskaya resta la rappresentante della Bielorussia democratica con maggiore legittimità, ma il suo governo in esilio non gode di un consenso universale. Va anche notata una curiosa eterogenesi dei fini fra regime e opposizione: in Lituania, ad esempio, gli attivisti bielorussi sono riusciti a impedire che il presidente della Repubblica firmasse una legge che avrebbe eroso la distinzione che viene fatta fra cittadini russi e bielorussi nell’applicazione delle sanzioni.
Di fronte alle pressioni del Cremlino e le sue mire espansionistiche, gli istinti di sopravvivenza del regime e il terrore delle forze democratiche di ciò che il giogo russo potrebbe significare hanno creato una priorità condivisa: evitare che Minsk rimanga totalmente alla mercé di Mosca.
Ciò complica ulteriormente il quadro in Europa dell’Est, creando dilemmi non facili. La dittatura di Lukashenka continua a torturare e abusare i propri cittadini, e un appello al disgelo sarebbe politicamente irricevibile e moralmente catastrofico. Mantenere la pressione sul regime e sostenere l’opposizione rimangono scelte di civiltà e politicamente adeguate per mantenere la speranza di un futuro migliore e porre un freno agli abusi.
Come salvaguardare la prospettiva di una Bielorussia democratica senza però causare tuttavia conseguenze ben peggiori? Probabilmente dipenderà dall’andamento del conflitto, ma una cosa è certa: la Bielorussia sarà una parte fondamentale di qualsiasi ordine post-bellico che emergerà dalla guerra.