Già trent’anni fa una letteratura seria spiegava che la cosiddetta globalizzazione, mentre avrebbe tirato fuori dalla povertà un paio di miliardi di persone del mondo arretrato, avrebbe impoverito decine, forse centinaia di milioni di individui appartenenti a quello progredito.
Si trattava del lavoro di osservatori non ripiegati ideologicamente in modo illiberale e anzi favorevolissimi al mercato e alla libera concorrenza, le cose che appunto negli ultimi decenni hanno strappato alla povertà tantissimi e impoverito una quota notevole degli altri.
Evidenziavano in buona sostanza che il libero mercato e la concorrenza, come elementi attuatori della globalizzazione, erano necessari ma non sufficienti a dar da mangiare come prima alle fasce sempre crescenti di impoveriti dei Paesi cosiddetti avanzati.
Ma suggerivano che si approntassero rimedi – tanto per intendersi – di compensazione, con investimenti rivolti non a correggere il gioco competitivo, non a limitare i rapporti di concorrenza, ma a rendere più duttili e aggiornati sistemi di welfare ormai incompatibili appunto perché confezionati sulla scorta di un mondo passato.
Il problema è che questo ragionamento molto serio non è mai stato fatto in un Paese come il nostro, nel quale al contrario il discorso pubblico imputa alle sfrenatezze del “neoliberismo” il pregiudizio sofferto da molti a causa dell’urto da globalizzazione. E si spiega.
Perché l’urto non si è qui prodotto su un assetto di compiuto sviluppo di un ordinamento della concorrenza e di mercato bisognoso di quelle compensazioni: si è prodotto su un impianto dell’economia e del lavoro marcatamente anti-concorrenziale, nemmeno sfiorato da qualsiasi insulto neoliberista per la semplice ragione che liberista non è mai stato.
Era bensì vero che la macchina utensile cinese, le valvole indiane, il tessile turco che decenni fa cominciavano ad aggredire i nostri mercati mettevano in crisi le corrispondenti produzioni domestiche e l’indotto interessato: ma era la crisi che si registrava nel Paese in cui l’impresa appartiene per il quarantacinque per cento al potere pubblico, nel sistema in cui è largamente sussidiata l’improduttività d’impresa, nella struttura dei rapporti tra impresa e potere statale in cui l’intermediazione burocratica grava più che ovunque in Occidente sull’iniziativa economica.
Era quindi un impatto tanto più devastante per difetto, non per eccesso di concorrenza della realtà sociale ed economica – la nostra – che lo subiva; per mancanza, non per sregolatezza del mercato; per rigidità, non per sbrigliatezza dell’organizzazione del lavoro.
E sono quelle mancanze e quei difetti, non il “neoliberismo”, ad impedirci di adoperare i frutti del mercato e della concorrenza per renderci compatibili con la cosiddetta globalizzazione: una creatura che infierisce tanto più proprio sui sistemi irrigiditi; quelli che sempre, non a caso, vogliono combatterla con politiche sociali pagate non si sa come e non si sa da chi.