Nelle interviste post partita, a qualsiasi domanda rispondeva con un «sì», «no» o «grazie», e subito abbassava lo sguardo. Nella chat, dove il lunedì affrontavamo il tema, avremmo preferito un giocatore più loquace. Ma, allo stesso tempo, noi argentini di Barcellona notammo qualcosa di buono: quando finalmente Lionel Messi metteva insieme una frase più o meno lunga, si mangiava le esse, come i rosarini. E non solo: diceva anche «ful», invece di falta, per indicare un fallo. Diceva «orsai» anziché fuera de juego. Diceva «gambeta» per il dribbling, «tribuna» per gli spalti, «hinchada» per la tifoseria, e mai regate, grada o afición. Scoprimmo, con sollievo, che Messi era dei nostri, di quelli che la valigia non l’avevano mai messa via.
Quella della valigia era una metafora che usavamo spesso, in quel periodo. Una frequentatrice abituale della chat era Laura Canoura, grande cantante e compositrice uruguayana che dava prestigio alle nostre chiacchiere. Fu lei a regalarci quest’immagine in un bellissimo tango intitolato Los hijos de Gardel, “I figli di Gardel”.
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Quando diventò il numero dieci indiscusso del Barça, ci accorgemmo che non smetteva di essere argentino. Tenevamo d’occhio il suo impegno grazie alle foto sui giornali sportivi e ai notiziari. Se continuava a portarsi dietro il mate e il thermos ai raduni, se era restio a rispondere in catalano alle interviste, se aveva musica autoctona nel lettore cd, e così via. Poi di colpo arrivarono le vittorie della Liga, della Copa del Rey e della Champions. E sapevamo bene, lui come noi, gli immigrati, che la cosa più difficile da mantenere era l’accento.
La prima volta che notammo che c’era una certa intenzionalità in questo suo comportamento fu quando, dopo aver vinto una Liga, gli diedero il microfono di fronte a novantamila tifosi del Barça. Era notte fonda al Camp Nou e Messi pronunciò cinque parole in catalano, che sicuramente gli avevano raccomandato di dire, e altre otto che gli vennero da dentro: «Visca el Barça, visca Catalunya… ¡Y aguante Argentina, la concha de su madre!». Disse così. E in molti della chat ci chiedemmo quanti catalani avessero colto in quell’esclamazione un insulto, quanti un incoraggiamento, quanti una lamentela e quanti semplicemente un mistero linguistico… Cos’era la concha de su madre per un catalano? Che significava aguante? E soprattutto, cosa sarebbero state per loro quelle parole tutte unite in mezzo all’esultanza? Noi, gli immigrati, capimmo che quelle parole non erano per i tifosi culés, bensì una strizzata d’occhio a tutti quegli argentini che erano arrivati a Barcellona nel 2000 e che stavano attraversando la fase peggiore dell’essere immigrati, cioè quella della lenta rassegnazione: stavamo cominciando a perdere l’accento e, da lì a poco, avrebbero cominciato a piacerci il pesce bollito e il muso del porco. Era terribile ammetterlo, però non era più il 2003 ed erano lontani i tempi dell’avventura europea.
Ormai avevamo una nostra routine e, come aveva profetizzato il tango di Canoura, in molte case i figli parlavano un’altra lingua, diversa da quella dei genitori. Ci veniva difficile continuare a dire «gambeta» al posto di regate, o chiedere al tassista di lasciarci a metà di una cuadra. O, al barbiere, «emprolijáme las puntas» quando volevamo soltanto una sistemata. Comunicare era diventato faticoso: il taxi ci lasciava sempre troppo lontano e i nostri tagli di capelli erano sempre imbarazzanti. Ma qualcuno di noi, come un vecchio lupo di mare, si ostinava, e continuava a dire «cuadra» ed «emprolijar», perché le parole erano la nostra trincea e la lingua, si sa, è lo specchio dell’identità.
E proprio lì, proprio in quel momento storico, Lionel Messi fu, senza volerlo, il nostro leader. La notte in cui gridò nel mezzo del Camp Nou «aguante Argentina, la concha de su madre», alle nostre orecchie giunse un altro tipo di incoraggiamento. Giunse Messi che ci diceva: “Continuate a usare il sostantivo cuadra per indicare un isolato, porca troia! Insistete con il verbo emprolijar quando non volete che vi taglino troppo i capelli! Che vi venga sempre fuori il voseo quando andate a chiedere un prestito! Coraggio, aguanten! Perché finché io qui continuo a fare gol andrà tutto bene e non mancherà mai il dulce de leche sugli scaffali, muchachos!”.
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Una notte che era già una star mondiale del calcio lo invitarono per un’intervista su TV3, lo stesso canale che aveva trasmesso le partite che giocava da adolescente. Il giovane rosarino aveva vinto (nello stesso anno!) la Liga, la Copa del Rey, la Champions, il Mondiale per Club e la Supercoppa uefa. Una follia, non si era mai vista una cosa del genere. Il mondo intero cominciava a credere di trovarsi di fronte a uno dei più forti di sempre. Quel servizio noi della chat lo vedemmo in diretta, commentandolo come si fa ora su Twitter. Gli avvicinarono il microfono e, come sempre, il giornalista di TV3 cominciò a fargli domande in catalano. Non è una forzatura: prima chiedono sempre all’intervistato se possono parlare nella loro lingua, e se a lui sta bene lo fanno. Messi ascoltava le domande in catalano e rispondeva, naturalmente, in “rosarino”. Così, in quel momento, noi argentini della chat scoprimmo che anche i catalani erano immigrati in un Paese chiamato Spagna, e che anche loro dovevano proteggere la loro lingua, il loro accento e le loro abitudini proprio come noi. E capimmo anche perché i catalani amano tanto Messi: non è solo per il calcio, lo amano perché difende il suo accento.
Da “La valigia di Messi” (People), di Hernán Casciari, p. 73, 12€