Ormai ogni giorno un[’]erede Berlusconi scrive a Repubblica facendo garbatamente presente che hanno scritto delle sciocchezze sul suo conto, e Repubblica risponde no, macché, abbiamo ottime fonti, confermiamo tutto (i vecchi del mestiere lo chiamano: metodo Minzolini).
Ieri Piersilvio, della cui lettera sono però stati pubblicati solo stralci (amici di Repubblica, a noi che ci ostiniamo a pagarvi un abbonamento potreste far leggere la lettera integrale? Non è che non mi fidi della vostra capacità di sintesi, per carità).
A un certo punto mi è toccato cercare su Google «sup», che mi par di capire sia una cara vecchia tavola, non so bene in cosa diversa dal surf. Giacché Piersilvio scrive che lui fa «Sup d’inverno sperando di avvistare un branco di delfini», e che «corre in Corsica tra mare, pineta e deserto», e io mi sono incantata a pensare: e se Piersilvio fosse il Tom Cruise italiano?
Le donne dicono che il giorno più importante della loro vita è quello in cui è nata la loro prole – anche perché altrimenti sai quanti anni di analista devi pagare a una prole che la mamma riteneva secondaria – o quello del loro matrimonio; nei casi meno sentimentali, quello in cui è stato pubblicato il loro primo libro.
Per me il giorno più importante non so se della vita ma di sicuro degli ultimi anni è il 12 luglio prossimo, una data che ogni giorno mi fa andare sull’agenda a contare quanti giorni manchino, tipo diciassettenne che aspetta la festa della scuola alla quale incontrerà il tizio che le piace.
«Spiegami di nuovo perché», sospira la mia amica F. ogni volta che, mentre dovrei star lavorando o facendo qualunque altra cosa, le confesso che sto invece guardando Ethan Hunt che sta attaccato ai vetri d’un grattacielo coi guanti a ventosa ma uno dei due guanti smette di funzionare e anche se l’ho visto venticinque volte ogni volta penso che l’addominale di Tom Cruise, 61 anni la prossima settimana, non potrà tenerlo attaccato per una sola mano al centoquarantesimo piano, si sfracellerà, e ogni volta invece ce la fa e io applaudo come una scema.
(Quanta dell’irresistibilità di “Mission: Impossible” è data dal nostro sapere che Tom Cruise si fa da controfigura da solo facendo panicare le assicurazioni e le produzioni e un po’ tutti perché insomma, lo so che qualche ottuso riterrà classista quest’affermazione, ma se ti si schianta la controfigura è un po’ meno grave che se ti si schianta la superstar? Il cinquantenne medio cui piacciono gli sport pericolosi desta, ci scommetto, meno preoccupazioni in chi gli sta attorno di quante ne susciti l’erede Berlusconi se si mette a fare bungee jumping).
La mia amica F. non si capacita e teorizza io abbia una cotta adolescenziale per Tom Cruise, e io ogni volta le ricordo che neanche ho mai visto “Risky Business”: che non è Tom in sé, è Tom in Ethan Hunt; ma è vero che Tom Cruise è la Julia Roberts dei maschi, con quel sorriso riempischermo, con quel destino da star nei denti.
Di tutte le dinamiche reputazionali di Hollywood, la più interessante mi pare il modo sempre più stanco e meno convinto con cui cercano di spiegarci che Tom Cruise è di Scientology, quindi è il male, quindi dobbiamo boicottarlo, e anche ai più atei e severi di noi viene da ridere: sì, in teoria tutto giusto, ma in pratica l’hai guardato bene? Voglio dire: è Tom Cruise.
Oggi è un giorno triste perché è l’ultimo in cui Netflix ha in catalogo l’unica ragione per cui io pagassi un abbonamento a Netflix: i precedenti “Mission: Impossible”, da guardare allo sfinimento nell’attesa della nuova dose. Mi toccherà abbonarmi a Paramount – qualunque cosa sia – per non restare senza la possibilità di rivedere tutte le settimane Ethan Hunt fuggire da un carcere russo con un’evasione cadenzata su una canzone di Dean Martin, che se non vi sembra la più geniale delle scene io e voi non abbiamo niente da dirci.
Ricordo perfettamente la prima volta in cui un amico trasecolò per il mio debole per “Mission: Impossible”, e sono abbastanza certa d’averlo già raccontato. Era l’estate del 2018, quella dell’ultimo “Mission: Impossible” uscito al cinema (Tom, non ce ne dai uno nuovo da cinque anni e io ti resto comunque fedele: altro che la lunga storia d’amore di Gino Paoli, altro che fai finta di non lasciarmi mai).
Eravamo, io e il mio amico M., all’Anteo, e io avevo gli occhioni sgranati davanti ai miei dieci minuti preferiti di tutti i “Mission: Impossible”: Ethan Hunt che fugge in moto per Parigi. Se non avete mai visto quella scena, non guardatela mai con qualcuno che ci tenga a farvi sapere che ha una certa qual familiarità con la viabilità dei mangiarane e insomma rue de Téhéran mica è vicina all’arco di Trionfo.
Se invece v’incantate a chiedervi quanto diamine possa essere costato, alla Tom Cruise production, fermare il traffico attorno all’arco di Trionfo per farlo andare contromano in motocicletta, benvenuti nel mio club, del quale M. si stupì per un attimo per poi a esso iscriversi quasi subito: siamo noi, siamo in tanti, ci piace che sullo schermo si vedano i soldi. Siamo quelli che, quando i titoli di testa si aprono con «a Tom Cruise production», sanno che avranno ciò che vogliono.
Conto di essere a Bologna, il 12 luglio. Ci tengo ad andare al cinema attraversando le strade della città nell’ultimo giorno in cui essa si finge di questo secolo. Il 12 luglio è infatti l’ultimo giorno in cui quell’unico frammento di civiltà presente nel centro di Bologna, la raccolta a domicilio della carta e della plastica, viene revocato.
Quel gran genio del sindaco, supportato da quei fulmini di guerra dei cittadini che mai hanno abitato in un posto civile e quindi sono convinti di vivere nella migliore delle città possibili, ha deciso che in città servivano più cassonetti, che se abitate in un posto civile vi suonerà come «più scippatori».
Eh ma guarda che sporcizia, ti dice indicando i mucchi di carta in attesa della raccolta serale il bolognese che non ha mai visto una raccolta a domicilio fatta come si deve ed è quindi convinto che non ne possa esistere una. E così, mentre tutti eliminano i cassonetti, Bologna li moltiplica, non riuscendo a fare una cosa così semplice che non so da quanti decenni Milano la faccia efficientemente ma Roma la faceva già nel 1991, quando mi ci trasferii io. (Pensa essere, trenta e fischia anni dopo, meno civilizzati di Roma, e sentirsi illuminati e progrediti: la mente vacilla).
Nei posti normali va così: all’alba, se non hai il portiere che se ne occupa, ti citofonano, entrano, si prendono la spazzatura – tutta, non solo la differenziata – e se la portano via. È così in tutte le città con un’amministrazione a malapena decente: a Bologna no, a Bologna aggiungono cassonetti all’arredo urbano e lo chiamano progresso.
Non dico che avrei in mente un candidato col quale renderla pulita e accogliente quanto Milano 2, per carità. Però non vedo l’ora d’andare al cinema saltellando tra mucchi di spazzatura e nuovi cassonetti lindi a simboleggiare il disastro d’una città che si percepisce ben amministrata, e di borbottare che fare di Bologna un posto contemporaneo non è missione difficile, signor Hunt: è missione impossibile.