«Adesso non esageriamo, non sono così vecchia» fu la risposta di Madonna quando le dissi che era ormai un punto di riferimento per quattro generazioni di donne. Avrei compiuto trentatré anni la settimana successiva, e mi sentivo grandissima.
Lei ne aveva compiuti quarantasette quell’estate, e con le amiche la chiamavamo «la vecchia». Con grandissimo affetto e reverenza, ma: la vecchia. D’altra parte Madonna era diventata famosa che mica era giovanissima (in quella stessa conversazione avevamo parlato del destino secondo me segnato di chi diventa famoso da piccolo, «ha presente Michael Jackson?» «e tu hai presente Jodie Foster?»), e noi eravamo minuscole.
Quando si rotolava su una gondola in abito da sposa ero in seconda media, la guardavo su Deejay Television all’uscita da scuola, mentre mangiavo un hamburger che qualcuno aveva bruciacchiato scongelandolo. Oggi una dodicenne si perderebbe Like a virgin, perché la tv i genitori la guardano assieme ai figli, e perché se non gli cucini manicaretti ti tolgono la potestà.
A trenta e spicci anni la chiamavo «la vecchia» anche in qualche articolo, ma certo non in quell’intervista che magari la sua addetta stampa avrebbe letto. La sua addetta stampa fu la prima volta che noi ragazzine imparammo che esisteva la figura dell’addetta stampa, e la prima di cui imparammo il nome.
Flashback del flashback. Settembre del 2001, sono in una stanza d’una redazione di La7, lavoro per un programma d’attualità in cui in quel mese si parla solo d’Afghanistan. Mentre gli altri redattori leggono le pagine di esteri in cerca di cose utili alla trasmissione, io leggo il New York Post in cerca di cose dilettevoli a me stessa. Vedo tre righe su Page Six. C’è scritto qualcosa come: dato il momento storico, smetto di lavorare con Madonna per concentrarmi su altro. Alzo gli occhi e guardo una che sta leggendo un saggio sul Mullah Omar: «Liz Rosenberg si licenzia, il mondo cambia, e io sto qui a perdere tempo con queste stronzate della guerra santa».
Poi non era vero che si licenziava, quattro anni dopo eravamo in un albergo di Londra e lei era lì, ancora la più famosa addetta stampa del mondo ancora al servizio della donna più famosa del mondo (primato brevemente scalfito da Diana Spencer, che però non ebbe tenuta sul lungo periodo e soprattutto non ha mai avuto un canzoniere).
Non le avrei mai dato della vecchia davanti alla Rosenberg, ma non c’era bisogno della Rosenberg per essere intimiditi: era Madonna. Balbettai che nelle quattro generazioni era inclusa quella di sua figlia, che il giorno dopo avrebbe compiuto nove anni. Disse: allora va bene. Sospirai di sollievo.
Erano altri tempi in tutti i sensi. Eravamo tutti così ricchi che, nelle ore di buco tra la conferenza stampa e l’intervista, andai a fare shopping. Eravamo tutti così poco smaniosi di mostrarci sensibili alle giuste cause, che in quelle due ore comprai una pelliccia. Ed eravamo così capaci di calibrare il gusto per la battuta e il senso della realtà che «la vecchia» era Madonna, tutt’altro che vecchia.
In quegli anni uno che faceva il suo stesso mestiere mi disse che lui Madonna non riusciva a guardarla, perché gli sembrava che i suoi spettacoli dicessero che il corpo femminile doveva essere eternamente riproduttivo. Archiviai la notazione senza trovarla particolarmente illuminante, giacché era presto: Madonna aveva avuto un figlio da cinque anni, la menopausa per me era un’ipotesi lontanissima, non esistevano i social né i telefoni che fanno le foto, non esistevano i filtri che fanno da punto d’incontro tra telecamere, social, e illusione d’immortalità.
Sapevamo tutti che le foto sui giornali erano ritoccate, ma quello era normale: certo che se appari su un giornale vuoi essere più carina. Una cantante italiana era famosa per essersi comprata una macchina professionale per il fotoritocco e per tenere sequestrati i servizi finché non si era piallata abbastanza da sembrare una che non assomigliava a sé stessa. Ci sembrava un caso clinico e unico: non sapevamo che entro pochi anni saremmo tutte state continuamente sulle copertine di ciò che sostituiva i giornali, e altrettanto nevrotiche: prova a guardarti in faccia tutto il giorno tutti i giorni, se quella faccia non ti piace.
Il problema che aveva quel tizio che mi disse che il corpo di Madonna gli metteva ansia era che il corpo di Madonna era il più evidente esempio della sua tenacia, della sua forza, del determinismo in un universo di cui era divinità e inquilina. La ragazza ordinariamente molliccia di Material girl era diventata la ragazza muscolosa di Like a prayer e poi la signora sottile di Ray of light. Madonna faceva del suo aspetto quel che voleva molto prima che tutte quante c’illudessimo di poter sembrare delle fighe sulla nostra pagina Instagram.
Diffido di tutte le frasi che contengono «la vita»: mi ha cambiato la vita, mi ha salvato la vita. Venerdì scorso True Blue ha compiuto trentasette anni, sono trentasette anni che sono grata a quel disco per avermi salvato non so se la vita ma sicuramente l’umore in quel quadrimestre in cui ero in collegio ed era uno dei quattro album che ascoltavo ossessivamente, e dei quattro sicuramente il più allegro (ero troppo piccina per capire il drammone di Live to tell, ero impegnata a sognare San Pedro e a chiedermi dove fosse la festa: Madonna si chiedeva dove fosse la festa due anni prima di Jovanotti).
Sono trentasette anni che Madonna fa venire il complesso di superiorità ai maschi di questa derelitta nazione con la maglietta «Italians do it better», trentasette anni che noialtre costruiamo universi sulla canzone in cui dice al papà di non rompere i coglioni, una canzone che oggi verrebbe usata come manifesto da tutti gli antiabortisti del mondo (all’epoca più distratti).
Sono passati più anni da quando Madonna aveva già sentito «tutte le battute, già pianto, uh, tante di quelle volte» di quanti ne avessi io quel pomeriggio in cui mi lanciavo in premesse di tre minuti cercando di sembrarle arguta, e lei alzava un sopracciglio e chiedeva: what was the question?
Due giorni prima del compleanno di True Blue, Guy Oseary, il suo manager, ha scritto su Instagram che Madonna era ricoverata per un’infezione batterica, che era in terapia intensiva, che l’avevano trovata in casa priva di conoscenza. È uno dei comunicati più inverosimili di tutti i tempi (un’infezione batterica? La regina delle salutiste?), e fa pensare che chissà che diavolo è successo, e farebbe dire non scherziamo, la vecchia è immortale – non fosse che il penultimo immortale è di recente morto.
Ieri i giornali italiani, sempre molto selettivi nelle fonti e dotati di senso del tono nel riportare le puttanate, hanno ripreso il Sun, secondo il quale si è ammalata perché, alla sua vegliarda età, «voleva competere con Taylor Swift e Pink».
E quindi proporrei un test d’ingresso per il giornalismo popolare, per chi deve occuparsi di celebrità e di rilevanza, di gerarchie dello star system e di tessuto connettivo del pop. Per aspiranti critici culturali malati di presentismo e per chi, per incolpevole illusione anagrafica, è convinto che quelli rilevanti siano i giovani, che la vecchia abbia fatto il suo tempo e debba dignitosamente ritirarsi col suo deambulatore in campagna. Senza Google, senza barare, senza farvi suggerire, ora mi dite dieci canzoni di Pink.