L’altroieri una mia amica ha pubblicato su Instagram una foto di Kundera e Roth assieme a Vera, la moglie di Kundera. Una tizia le ha scritto che insomma, basta questa cosa egotica di celebrarsi pubblicando la propria foto col morto del giorno.
Quando me l’ha detto ho pensato che ne avrei scritto. Che avrei scritto di come la stigmatizzazione di «è morto, parliamo di me» sia passata in un anno e mezzo da tema abbastanza interessante da volermi far scrivere un libro sull’esibizionismo social, a banalità pavloviana che qualunque idiota dalla conversazione inadeguata ti dice «basta foto col morto» come ti direbbe che il trasloco è il terzo evento più traumatico nella vita d’una persona.
Volevo scrivere della stupidità dell’internet, come peraltro faccio ormai ogni giorno, più noiosa e ripetitiva di vostra nonna quando raccontava dei panni lavati al fiume. Volevo parlare dell’intervista di Giulia Valentina al Corriere, in cui dice che non ci pensa proprio a raccontare la sua vera vita agli sconosciuti; e di me che disattivo la possibilità di taggarmi su Instagram giacché, diversamente da lei, neanche fatturo coi follower, e non si capisce perché debba fingere di considerare Vongola75 interlocutrice all’altezza. Poi è arrivata Goliarda.
«Dove lo contengo?» è la frase che ogni intellettuale vorrebbe fosse detta di sé, ma fino a ieri non l’avevo capito. Fino a ieri quando l’internet, sempre smaniosa di demolire il morto del giorno, ha tirato fuori un’intervista di trent’anni fa, in cui Goliarda Sapienza parlava di Milan Kundera (è qui, ma vi avviso: se andate a guardarla non tornerete mai a leggere il resto dell’articolo, passerete la giornata a inoltrare Goliarda su Milan a chiunque conosciate).
L’internet – mi ripeto – è inevitabilmente stupida, e quindi della meraviglia delle cose che dice Sapienza non ha capito nulla. Una volta si sarebbe indignata per i toni in cui continua a ripetere che Kundera era abituato alle cecoslovacche, «giovenche», e il suo non capire che lei, maneggiata con troppo impeto, avrebbe cominciato a sanguinare.
All’ennesimo «sai come sono loro» mi sono chiesta quale scandalo ne sarebbe uscito se invece che ceco Kundera fosse stato africano, ma forse si poteva comunque gridare alla discriminazione dell’est europeo; però l’internet non badava mica a quello, perché negli ultimi anni ha imparato due paroline magiche: mascolinità tossica.
Goliarda Sapienza raccontava di lei che sanguinava e Kundera che succhiava il sangue, «innamorato», e loro, coi loro poveri mezzi intellettuali, lo consideravano sovrapponibile al ragioniere che si sono sposate, quello che le prende a schiaffi se non trova pronto in tavola.
Poi però arriva il momento in cui ciò cui sta alludendo da minuti, il gigantismo ceco, l’abitudine a donne più voluminose, Goliarda Sapienza lo esplicita, mettendo le mani a una quarantina di centimetri di distanza e dicendo: «Aveva un cazzo così: come faccio, io, dove lo contengo?».
Nella biografia di Roth scritta da Blake Bailey, a un certo punto ci sono queste righe qui: «Durante una sua visita a Londra, lui e Roth avevano passeggiato per la città mentre Roth faceva del suo meglio per mostrargli la sua solidarietà: era terribile, gli aveva detto, che lasciando il suo paese natio avesse perso tutto – soldi, casa, genitori, lingua… Kundera aveva scosso la testa, l’aveva interrotto e aveva detto in tono un po’ spazientito: “Philip! No! Ho perso sedici ragazze!”».
Tutto quello che si fa – diventare campione di calcio, popstar che riempie gli stadi, scrittore che magari non vince il Nobel ma dovrebbe – lo si fa per piacere alle ragazze, lo sappiamo tutti, o almeno lo sanno tutte le ragazze, e tutti quelli che hanno organizzato le loro carriere per far colpo su di loro.
Ma, e non c’è stigmatizzazione della mascolinità tossica che possa cambiare questo stato di cose, nessuna applicazione, studio, impegno, niente può ovviare all’unico dislivello che conta: se ce l’hai piccolo, ce l’hai piccolo. Non sto parlando della delusione nostra quando ti levi le mutande, badate bene. Sto parlando di te. Di te che sai d’avere quella vergogna nascosta nelle mutande.
Quando dicono sciocchezze sui giudizi sul corpo delle donne, sul fatto che solo alle donne siano riservati i criteri della società dell’immagine (come non avessimo passato anni a commentare la figaggine di Obama o i doppi menti di Renzi), sull’esclusiva sofferenza delle donne rispetto alle valutazioni estetiche, le ragazze dell’internet non solo mentono, ma accantonano con dolosa disonestà intellettuale il principale dislivello tra i sessi. Se sei una donna, i tuoi difetti li sappiamo tutti. Se ho le cosce grosse, le tette piccole, il culo basso, si vede. Si vede anche da vestita, ogni ragazza lo impara tra le medie e il liceo, quando smette d’illudersi che un golf legato in vita dissimuli il culone.
Se hai il cazzo piccolo, è il tuo segreto, o almeno così t’illudi sia. È la tua vergogna nascosta nelle mutande, nessuna lo sa finché non è troppo tardi (chi sarà mai così orrenda da dirti «ma dove vogliamo andare con quel cosino, rivèstiti»), ed è una cosa così umiliante che neanche le più crudeli di noi la usano per sputtanarti (anche perché: nessuna vuole ammettere d’essere andata a letto con uno che ce l’aveva piccolo; ma, quando finalmente cosino s’accasa, tutte guardiamo la moglie e ci chiediamo come le sia venuto in mente di accendere un mutuo a tasso fisso con quel cosino).
Solo che non è così. Solo che quel che hai nascosto nelle mutande influisce su come ti muovi rispetto al mondo, su quanto sei sicuro di te, su quanto sei abituato a essere desiderato, temuto, illuso (pensate alla distorsione del senso della realtà che affligge un portatore di cosino cui le donne abitualmente dicano le cose che dicono in automatico, «amore, ma è enorme» e altre menzogne).
Quando Greta Thunberg, in una polemica social, disse a un cretino che aveva una «small dick energy», le polemiste sceme dell’internet fecero contorsioni intellettuali per spiegarci che era un modo di dire che nulla ma proprio nulla aveva a che fare con l’avere il pisello piccolo, e invece era esattamente quello (l’ha capito la Thunberg, a stento maggiorenne, e non le polemiste adulte): gli stava dicendo che si muoveva nel mondo come uno che ce l’ha piccolo, perché le ragazze uno che ce l’ha piccolo lo riconoscono ben prima che si levi le mutande (anche se a volte sono così disperate da levargliele lo stesso).
Certo, Goliarda Sapienza dice, nella stessa intervista, che “L’insostenibile leggerezza dell’essere” è un romanzo pieno di sentimentalismo, una categoria l’associazione alla quale escludo avrebbe fatto piacere a Kundera (peraltro quella di sentimentalismo era la stessa accusa che a quel libro muoveva proprio Roth, in una lettera a John Updike); ma tutto è perdonato perché poi dice che proprio non poteva farsi scopare da Kundera perché «dove lo contengo» e perché «aveva delle misure enormi, poverino, non era colpa sua, amore». E quindi la domanda che resta alla critica culturale è: Philip Roth sarà morto d’invidia?