Tempo fa una persona che era stata a cena a casa di Aurelio De Laurentiis mi parlò con sconcerto del lampadario. Un lampadario a candele. Un lampadario con centinaia di candele (saranno state decine? Avrà esagerato? Sarà stato un falso ricordo dovuto al trauma d’essere una persona povera al desco dei ricchi?).
Ma secondo te, mi chiedeva l’ospite, qualcuno della servitù ogni volta che c’è gente a cena deve, prima, arrampicarsi e accendere una per una tutte le candele? Sarà per forza così, no? E quando ce ne siamo andati si saranno dovuti arrampicare a spegnerle?
Ci ho ripensato per tutta la scena in cui Ethan Hunt corre, inseguendo il cattivo che se ne sta andando da una festa veneziana. Ethan Hunt che corre è un classico dei “Mission: Impossible”, in “Dead Reckoning” mi è sembrato corresse persino più del solito forse perché una parte è appunto girata a Venezia dove gli inseguimenti mica puoi farli in moto come a Parigi.
Fatto sta che corre attraverso corridoi e scale e cortili del palazzo Ducale, corridoi e scale e cortili lungo i quali ci sono migliaia di candele che, diversamente da una vera festa veneziana o da una cena a casa De Laurentiis, avranno dovuto essere controllate e sistemate e riaccese a ogni ciak, a ogni angolazione, a ogni passaggio di Ethan.
Non è la scena più «si vedono i soldi sullo schermo» di “Dead Reckoning”, ovviamente, ma un’intervista all’addetto alle candele (a quello di “Dead Reckoning”, ma pure a quello di casa De Laurentiis) la leggerei volentieri. La scena più «si vedono i soldi» è tale anche grazie al (troppissimo) che ormai sappiamo del dietro le quinte dei prodotti di cui dovremmo conoscere solo il davanti alle quinte.
Poiché siamo un’epoca così scema da aver inventato, oltre al concetto di «ghosting», anche quello di «spoiler», l’altro giorno su Twitter c’era una certa indignazione perché un recensore aveva scritto che solo Tom Cruise poteva usare come cliffhanger (cioè: come momento di suspense e gancio per farci venir voglia di vedere la seconda parte di “Dead Reckoning”) una scena in cui è effettivamente hanging from a cliff, appeso a una roccia.
Mentre l’internet si indignava, io mi chiedevo che suspense mai fosse: è Ethan Hunt, mica può morire. Capirei se stessero tentando di alimentare il mistero sulla continuazione o no del marchio Mission: Impossible, ma di “Dead Reckoning part 2” c’è già la data d’uscita (manca un anno, e io che faccio nel frattempo?): neanche i più folli di noi pensano che ci possa essere un intero film senza Ethan, no?
E infatti era una battuta e quella non è l’ultima scena (strano che l’internet si sia indignata a vuoto, non succede mai); ma quello che loro forse non sanno, perché sono meno fanatici di me e non seguono Christopher McQuarrie sui social, è che tutta l’ultima ora la sappiamo già (è un film di menare e di inseguire e di sparare, mi diranno i più saggi di voi: tutte le due ore e quaranta le sappiamo già).
Christopher McQuarrie è un signore di 55 anni la cui prima sceneggiatura viene prodotta quando ne ha 27: è un film per nulla rilevante che s’intitola “I soliti sospetti”. Ormai più di dieci anni fa, Tom Cruise capisce che è l’uomo per lui e lo mette a scrivere o riscrivere o dirigere tutte le sue cose. McQuarrie è un figo pazzesco, e qualche giorno fa ha messo su Instagram un filmato che mi ha preparato all’ultima ora del film. Nel filmato diceva più o meno: non c’era un Orient-Express da scialare, non ne potevamo far sfracellare uno esistente per il film, quindi ne abbiamo costruito uno.
Quindi, quando il gruppo della missione impossibile deve andare a recuperare la chiave che inseguono per tutto il film (il McGuffin, diranno quelli che hanno studiato) sull’Orient-Express, io e tutti quelli che seguono McQ sapevamo già come sarebbe finita: col treno che si sfracella. Questo ci ha guastato – in neolingua: spoilerato – la visione? Non so: sapere che alla fine Meg Ryan si sarebbe messa con Billy Crystal vi ha rovinato la visione di “Harry ti presento Sally”?
“Dead Reckoning” è stato scritto nel 2019: avevano iniziato a girare a inizio 2020, poi la pandemia, le riprese sospese, poi Tom che non vuole uscire sulle piattaforme (l’anno scorso Jimmy Kimmel gli chiese se, qualora le sale non avessero riaperto per dieci anni, lui avrebbe aspettato dieci anni per far uscire “Maverick”, che era anche quello rimasto fermo perché Tom vuole che andiamo al cinema come una volta, e lui rispose qualcosa tipo: erano trentaquattro anni che la gente aspettava questo seguito, potevano aspettarne altri dieci).
Tutto questo per dire che il “Mission: Impossible” che sono andata a vedere alle dieci di mattina del giorno d’uscita perché non sono per niente fanatica è un film di (almeno) quattro anni fa, e inizia su un sottomarino con a bordo gente che un attimo prima si sente la più figa del mondo e un attimo dopo saltano tutti per aria; e, per le due ore e mezza successive, parla dei rischi dell’intelligenza artificiale (quando non è impegnato a sparare e menare e inseguire). Ero al cinema mentre arrivava la notizia della morte di Milan Kundera, e tutto tornava: per capire dove va il mondo, le opere di fantasia sono spesso più precise dei saggi e degli editoriali.
E poi c’è Roma. Roma che già mi vedo le interrogazioni parlamentari: il governo venga a rispondere del fatto che a questi americani è stato consentito di distruggere la scalinata di piazza di Spagna. Roma che è un gigantesco pizzino ai parcheggi in doppia fila, «who parks like this», sbotta una costretta a un inseguimento nei vicoli in Cinquecento gialla tra un parcheggio abusivo e l’altro. Roma che a un certo punto la tizia lascia Tom Cruise ammanettato alla Cinquecento sui binari del metrò blu (in romano: ’a mètro B), ma nessuno che conosca Roma si preoccupa: è sempre così in ritardo che farà in tempo a liberarsi e a non venire travolto – e infatti.
Non è la prima volta che un pezzo di “Mission” è romano. Nel terzo – che sarà per sempre il più bello, perché c’è Philip Seymour Hoffman, e quando ci ricapita che il più grande attore di cui abbiamo avuto in sorte d’esser coevi faccia il malvagio antagonista di Ethan Hunt – Tom e gli altri dovevano fingere un ingorgo perché lui potesse introdursi in Vaticano; qui, si finge poliziotto romano per farsi consegnare un ostaggio.
In entrambi i casi, parla un italiano raccapricciante, da turista in luna di miele che non riesce a pronunciare «al dente», e nessuno potrebbe scambiarlo per poliziotto o altra mansione locale.
Tom. Tu ti butti senza controfigure nel precipizio in motocicletta e paracadute. Tu fai stare una giornata ferme le riprese perché rifiuti gli effetti speciali e se Ethan Hunt deve far sparire la chiave da una mano facendola riapparire nell’altra come un prestigiatore di provincia t’incaponisci che devi saperlo fare tu e deve funzionare. Tom. Possibile che l’unica cosa che ti rifiuti di fare è metterti lì a imparare a pronunciare quelle quattro battute come le direbbe uno che va in vacanza ad Anzio e non a Barbados?
Tom, possibile che l’italiano per te sia come la dieta per me: quell’attività fastidiosa cui ti rifiuti di dedicare anche solo un millesimo della tua concentrazione? Tom, non è che possiamo risolvere mandandoti a cena da De Laurentiis, così poi ne imiti la cadenza e magari puoi anche offrire un lavoro più ricreativo a quelli che accendono e spengono le candele? Secondo me sanno insegnarti il trucchetto della chiave, Tom.