Apro il file che Pages chiama «Untitled 222» e che a un certo punto salverò chiamandolo «Filippo Facci» dopo due giorni in cui ripasso le due liste: quelli che mi toglieranno il saluto, quelli che mi quereleranno; dopo due giorni in cui mi chiedo come mi venga in mente di scrivere della ridicola vicenda che parte dal figlio di La Russa che forse stupra una, passa da Filippo Facci che sicuramente ci scrive uno dei suoi articoli, e arriva a: il problema dell’Italia è un programma televisivo che neppure ancora esiste.
Come tutti, conosco Filippo Facci da una vita. Quella frase che non si sa bene chi abbia detto per primo, quella sulla rivoluzione che in Italia non si può fare perché ci conosciamo tutti, non è mai stata così vera. Osservavo, nei giorni di questo scandale du jour, l’indignazione social verso Facci d’una signora, una che stigmatizzava la destra che dà spazio a coloro che compiono reati contro le donne, lo stalker Facci e lo stalker Morgan, e pensavo: sì cara, ma tu te li sei scopati entrambi, cosa ci dice questo di te? (Che volgarità, sembro un articolo di Facci).
Quando, il giorno della presentazione dei palinsesti Rai, è stata annunciata una striscia di Facci all’ora di pranzo, quelli più pratici d’indignazione hanno pensato a Enzo Biagi, quelli più pratici di televisione hanno pensato a Vittorio Sgarbi, e io ho pensato: questa destra è proprio alla frutta, poverini.
Non perché pensi che Facci non sia in grado di commentare qualcosa in tv (un ruolo che non mi pare richieda chissà quali qualità: chi pensa che la tv richieda gravitas non ha capito che la tv la gravitas te la dà – persino quando sembra ti dia il contrario); perché, se fossi una persona di potere, a uno come Facci – sciamannato, discontinuo, infantile, inaffidabile – non assegnerei mai una delle caselle disponibili. A meno che non fossi una persona di potere della destra di oggi, così priva di personale potabile che se trovate una chiamata non risposta probabilmente è qualcuno che vuole affidarvi una prima serata, e pazienza se non di tv vi occupate ma d’idraulica o di cucina molecolare.
Ma non vorrei tardare a far cancellare il mio numero da alcuni telefoni e a farmi dire «come hai osato accostarmi a quello, ti querelo», e quindi devo qui dire che non esiste un «caso Facci». Esiste un caso «cinquantenni narcisi che tengono in ostaggio la comunicazione italiana», una grande chiesa che va da Diego Bianchi a Giuseppe Cruciani, da Andrea Scanzi a Roberto Saviano, da Corrado Formigli a Filippo Facci. Sono fintamente divisi tra sinistra e destra, ma davvero accomunati da ciò per cui li riconosci.
Certo: li riconosci perché per la battuta si farebbero ammazzare; certo: li riconosci perché si piacciono moltissimo; ma soprattutto: li riconosci perché hanno gli anelli d’argento. Hanno madri e mogli che, smaniose di percepirsi moderne, non dicono loro «tu conciato così non esci», ed eccoci qui. Ai sedicenni senili con gli anelli da Sandokan, alcuni addirittura con gli anelli al pollice, e senza neanche avere la scusa di dovere nell’anello tenere il veleno se mai li catturasse il nemico.
Se non avete seguito i fatti (beati voi), ve li riassumo brevemente per arrivare a dire la cosa per cui Facci mi querelerà. Accade dunque che Facci scriva un articolo sul caso La Russa, sul presunto stupro perpetrato da Leonardo Apache (Ignazio La Russa incarna la compattezza del pensiero di governo: ha chiamato il figlio con un nome da animale domestico, ma anche con un nome da cristiano). E in quell’articolo scrive il mezzo rigo «fatta di cocaina prima di essere fatta anche da Leonardo Apache», che è la frase per cui da due giorni i giornali sono pieni di questo scandalo.
Ora. Chiunque sappia leggere pensa, di fronte a quella frase, solo una cosa: i danni che ha fatto Marco Travaglio alla prosa degli elzeviristi italiani, non c’è risarcimento che basti, ci vorrebbe una class action.
Io, che vorrei il 41 bis per i giochi di parole, a Facci quella frase l’avrei tagliata non perché sessista ma perché lesiva d’un qualsivoglia gusto delle parole. Poiché nei giornali nessuno passa più niente («passare» è il termine giornalistico per un lavoro estinto: leggere il pezzo che qualcuno ha scritto, e trasformarlo nel pezzo che andrà in pagina), questa travagliata viene pubblicata.
Poiché Facci contiene in sé un abisso che separa come si percepisce (un raffinato prosatore e un serio studioso) e come è (uno che scrive pezzi pieni di sciatterie, refusi, imprecisioni), quella travagliata l’ha scritta, e neanche si è reso conto di cosa sarebbe successo.
Filippo Facci ha pensato di poter scrivere nei suoi soliti toni essendo nel frattempo divenuto uno che era indicato sui giornali come conduttore d’una nuova striscia informativa sulla Rai. Ha pensato che scrivere su un impresentabile giornale di destra, ed essere uno di cui si può luogocomunare «è alla Rai, pagato coi nostri soldi», avessero sul mercato dell’indignazione lo stesso impatto.
Non ha deciso di fare quella imbarazzante battuta comunque perché è un autore tutto d’un pezzo e non dà una regolata ai propri toni per ragioni d’opportunità, no: stolidamente, non ha pensato fosse cambiato qualcosa. Ha pensato di poter scrivere come venti giorni fa, ma anche come vent’anni fa.
È, questo, un dettaglio su cui do testate al muro ogni giorno da anni: c’è gente – beata lei, in un certo senso – che non ha capito in che secolo vive. Che pensa davvero di poter scrivere «fatta da» senza che insorgano i cani di Pavlov dell’indignazione. E, quando essi insorgono, di poter allora davvero pigolare che è una sconfitta che nessuno abbia letto l’articolo per intero e tutti se la prendano per mezza frase. C’è gente che aspetta il luglio 2023, e di venire messa in mezzo personalmente, per rendersi conto di vivere nell’epoca dello screenshot e non delle letture approfondite. Un po’ la invidio, un po’ mi fa pensare che si merita d’inguaiarsi.
La sconfitta dell’articolo non letto per intero sta in una delle numerose interviste date da Facci in questi giorni, ovviamente tutte sbagliate nonché tutte inutili. D’altra parte, fosse uno che sa strategicamente scegliere cosa dire e cosa no, non staremmo parlando d’una vicenda che non sarebbe mai accaduta. A un certo punto, in una di queste insensate interviste, fa un elenco di reati dei quali sarebbe stato accusato e dice che lo difende Annamaria Bernardini De Pace. Poco dopo su Repubblica compare un articolo di Alessandro Simeone – ex socio della Bernardini, e avvocato di Ilary Blasi contrapposto a lei avvocato di Francesco Totti – che gli passa tardivamente il pezzo, elencando imprecisioni e precisando che quelli cui si riferisce non sono reati. È tutt’un regolamento di conti sulla sua testa, povero Facci.
Poi c’è, rimossa da questa mia ricostruzione ma che forse meriterebbe un capitolo a sé, l’unica entità più disperata della destra italiana: la sinistra italiana. Alla quale non è parso vero di potersi gettare sul pesce piccolo e chiedere con vibrante indignazione la testa di Facci, ché magari si finisce con meno pive nel sacco di quando si chiede quella del più attrezzato Vittorio Sgarbi.
Hanno tirato fuori il loro bravo catalogo di screenshot e ricordato che questo Facci è riprovevole in molti modi, ha irriso una vittima di manata sul culo, ha detto che gli fa schifo l’Islam, il catalogo delle gravità è ampio. Ma non abbastanza ampio e rilevante, il catalogo delle nefandezze, da tirarlo fuori nei giorni prima del gioco di parole.
Che ti faccia schifo l’Islam diventa grave solo dopo che hai fatto un gioco di parole che non faceva ridere. Solo quando possiamo tirar fuori persino i tuoi bisticci con l’ex moglie, i tuoi debiti, i tuoi vizi, giacché sei divenuto capro espiatorio e non hai più nulla d’umano; ma ora non è che si possa pensare che i partecipanti a questo gioco di società – da Laura Boldrini a Sandro Ruotolo giù fino a Filippo Facci – conoscano la letteratura e i modi in cui queste dinamiche sono state codificate, che abbiano letto Girard o Agamben o anche solo Soncini.
Diversamente dagli indignati, leggo spesso i giornali italiani. E quindi vorrei rendermi utile segnalando la pericolosità del precedente. Non è che essi giornali siano zeppi di Michele Serra e Mattia Feltri. Non è che lo standard sia umorismo raffinato, prosa invidiabile, precisione lessicale chirurgica. Se iniziate a chiedere la testa di tutti quelli che fanno battute brutte, non ne rimane praticamente nessuno.