La deriva mimetica del bipolarismo italiano, per cui destra e sinistra quanto più accanitamente si combattono, tanto più finiscono per assomigliarsi e per perseguire gli stessi fini, spesso anche con i medesimi mezzi, ha avuto sui cosiddetti extraprofitti bancari una manifestazione eclatante.
Non mancano però nel passato recente altri esempi di questa coincidentia oppositorum, che rende indistinguibili fazioni divise da uno steccato etnico-tribale, più che politico-ideale.
Marco Pannella, che aveva visto in anticipo questa deriva, già trent’anni fa, quando il bipolarismo ancora prometteva l’istituzionalizzazione delle estreme politiche e non – come purtroppo è avvenuto – l’estremizzazione della dialettica politico-istituzionale, denunciò gli scontri tra i “serbo-progressisti” e i “croato-moderati”, entrambi convinti del proprio primato storico-morale e quindi ugualmente responsabili di un disordine organizzato da guerra civile ex jugoslava, che però dissimulava una sostanziale convergenza su politiche di potere e di diritto anti-liberali, a volte (solo a volte) diverse nella forma, ma mai nella sostanza.
Come tante profezie pannelliane, anche questa ha avuto una puntuale e dolorosa conferma. Mai destra e sinistra, nell’intera Seconda Repubblica, sono state così lontane e quasi interamente dominate da suggestioni post-fasciste e post-comuniste. Mai però sono state così vicine e praticamente sovrapposte nell’idea del rapporto tra Stato e mercato, tra Stato e cittadino e tra potere pubblico e libertà e diritti personali.
C’è da dubitare che questa tendenza sia casuale o motivata solo dal ricorso obbligato al repertorio della demagogia politica nazionale, che come la commedia dell’arte ha schemi e personaggi fissi – da una parte il parassita, l’imbroglione, il ladro, il profittatore e l’usuraio (quindi per definizione il banchiere) e dall’altra una variopinta congerie di vendicatori del popolo, tra toghe, uniformi o laticlavi – e lascia all’improvvisazione dei personaggi lo svolgimento del canovaccio e il suo adattamento alle contingenze dello spettacolo.
Questa unità nazionale demagogica ha una radice culturale profonda, che, a volerla proprio nobilitare, rimanda a quella della destra e sinistra hegeliana, divise circa il ruolo delle tradizioni religiose per la conservazione dell’ordine sociale, ma non circa la coincidenza della storia del mondo con quella dello Spirito e quindi circa l’esistenza di un ordine politico necessario, perché corrispondente a una vera necessità storica.
In questo quadro, la giustizia, intesa in senso economico, sociale e civile non parte dai diritti degli individui, ma vi arriva determinandoli a misura di un interesse collettivo – che può essere quello dello Stato, della classe o perfino dell’umanità – il quale, nella versione reazionaria e realistica come in quella rivoluzionaria e idealistica, risponde a un bene presupposto e indiscutibile, cioè a un feticcio ideologico, già realizzato o da realizzarsi, ma comunque oggettivo e inderogabile, che si tratti dello Stato prussiano o della rivoluzione comunista.
Questa idea dello Stato “totale”, che redistribuisce oneri e vantaggi e premi e punizioni presumendo di obbedire ai comandamenti della storia stessa e di inverarne il senso, è sempre uno Stato potenzialmente totalitario e comunque, anche quando formalmente democratico, assolutistico nella pretesa di trattare le persone come mattoni di una costruzione sociale impersonale e ogni rivendicazione di diritto – a maggior ragione se secondo diritto – come una pretesa particolaristica, antipopolare o anti-patriottica.
Per gli hegeliani inconsapevoli di destra e di sinistra, nostri connazionali e contemporanei, il populismo economico, sociale e giudiziario è alla fine la versione plebea e mediatizzata di quella miseria dello storicismo esecrata da Karl Popper: un modo grottesco, più alla Brancaleone che alla Napoleone, per sedersi sul cavallo su cui si pensa galoppi l’anima del mondo.