Ma non vai da qualche parte?L’estate di Natalia Ginzburg e il mio agosto in città col condizionatore sempre acceso

In questo periodo di tifoni e malmostosità meteorologiche, ogni tanto mi accorgo che non fa abbastanza caldo per l’aria a 18 gradi che in casa mia è accesa perpetuamente

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«Tutti partono, e ci chiedono se anche noi partiremo. Impossibile rispondere, quando siamo nel numero di quelli che non hanno voglia né di partire né di restare». Ogni giorno, tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, io penso a Natalia Ginzburg. Ogni giorno, tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, qualcuno mi chiede: ma non vai da qualche parte?

Ma mica estranei, eh. Gente che mi conosce da decenni e alla quale da decenni ripeto che sì, agosto in città è forse una rottura di coglioni, ma mai quanto agosto negli aeroporti, nelle stazioni, nelle spiagge con altra gente, nell’ingorgo sulla Pontina dal quale mi stai chiamando per chiedermi come mai io non vada come te a infilarmi in un ingorgo per poi fare lo Zoom delle quattro da Sabaudia invece che da Roma, nella casa di campagna dalla quale mi stai chiamando per chiedermi di controllarti una citazione perché non essendo quella in cui abiti tutto l’anno non hai lì tutti i tuoi libri, i tuoi giocattoli, le tue comodità, e questa privazione la chiami lusso.

Ogni anno, poiché è impossibile avere un’idea nuova per parlare di costume in questo secolo, a meno che uno non si rassegni a parlare della vita sull’internet, unico ambito in cui non sia già stato detto tutto nel secolo scorso, ogni anno tutti saccheggiamo quell’articolo dell’agosto del 1971.

Quando Natalia Ginzburg scrisse che odiava l’estate, ma detestava «però più ancora la folla dei treni», aveva appena compiuto cinquantacinque anni, e quell’agosto lì non somigliava per niente a quest’agosto qui. Ma, soprattutto, l’agosto che raccontava lei non somigliava agli agosti che c’erano allora.

«Non odio l’estate per il caldo. Non mi accorgo del caldo e non me ne importa niente. Mi ricordo che fa caldo solo quando ne parlano gli altri». Ogni volta che leggo questo passaggio, trasecolo: era un secolo senz’aria condizionata, come facevi a non soffrire, Natalia, eri pure in piena menopausa; poi mi ricordo: non conoscevamo la differenza.

La prima volta che mia zia mi portò a New York era un luglio a fine anni Ottanta, e tornai con una bronchite che neanche d’inverno in motorino nel freddo umido padano che chi va a scuola in questi anni non sa più cosa sia. Nessuno mi aveva avvisata dell’unica cosa importante da sapere prima di andare negli Stati Uniti per la prima volta: portati un golfino. Entravamo da Bloomingdale’s e si passava da trenta gradi a quindici. Una malattia da raffreddamento a luglio: che sogno, per una calorosa.

Quando Mario Draghi l’anno scorso ha chiesto, secondo lui retoricamente, «volete la pace o l’aria condizionata», per me la retorica era contraria. Era una domanda cui sapevo, volevo, potevo rispondere in un solo modo. Vuoi la salute delle persone a te più care o l’aria condizionata? Vuoi il Nobel per la letteratura o l’aria condizionata? Vuoi la vita eterna o l’aria condizionata? Non c’è un dualismo al quale io non risponda: l’aria condizionata.

In questa estate di tifoni e malmostosità meteorologiche, ogni tanto mi accorgo che non fa abbastanza caldo per l’aria a 18 gradi che tengo perpetuamente accesa. Ma non la spengo: metti che poi quando la riaccendo non raffreddi più come dovrebbe, metti che quella magia nera che rende casa mia un frigorifero non funzioni più, metti che. Aggiungo un golfino sulle spalle, ma non la spengo. Aggiungo un piumone sul letto, ma non la spengo.

Dice la Ginzburg che la situazione, per chi odia l’estate, migliora dopo Ferragosto, ma io la seconda metà di agosto nel Novecento me la ricordo. Quando esistevano le stagioni, e quelle erano le settimane delle prime piogge, e gli alberghi costavano un po’ meno, e tutti ma proprio tutti ne approfittavano.

Se a vent’anni passavo da Roma per cambiare la valigia nella seconda metà di agosto, era impossibile trovare un bar aperto, o un’edicola. La città era vuota in modi adesso inimmaginabili. Adesso che le città sono ogni giorno e settimana e stagione dell’anno invase da locuste con sembianze umane scese da voli Ryan Air per mangiare un pezzo di pizza al taglio in una città qualunque purché non loro, va bene anche Bologna pur di dire che sono andati da qualche parte, purché nessuno con tono impietosito chieda loro: ma non vai da qualche parte?

«Passato il Ferragosto, mi sembra di uscire da un incubo», scriveva la Ginzburg, ma allora Ferragosto era – come ora – la terza o quarta settimana di lavanderie chiuse, perché una sola cosa non è mutata ed è che le proprietarie dei lavasecco tengono troppo alla qualità della loro vita per stirare ad agosto, e quindi i lavasecco sono gli unici negozi novecentescamente chiusi per un mese e mezzo.

Allora, Ferragosto era quando non avevi più niente di pulito, tranne le magliette non stirate che avevi lavato a casa, Ferragosto era quando ti auguravi che nessuno ti dicesse «sono in città per due giorni, organizzo una cena di reduci», perché – oltre a doverti interrogare su ciò da cui foste reduci (dal cambio delle valigie?) – non avresti avuto niente da metterti. Adesso ci sono i cinesi, che hanno più voglia di lavorare di chi è nato tra Belluno e Trapani, e ti stirano una camicetta pure ad agosto; ma allora come facevi, Natalia?

«Inoltre mio padre usava dire, al termine di ogni villeggiatura e nel corso dell’inverno, che non saremmo andati mai più in nessuna villeggiatura perché non avevamo più soldi. Questa minaccia lasciava i miei fratelli e mia madre nella più assoluta indifferenza, essi non ci credevano e d’altronde non sognavano altro che un’estate in città. Quanto a me, all’idea che eravamo così poveri ardevo di felicità e di paura, perché temevo e speravo di trovarmi in una situazione drammatica».

C’è stato un tempo in cui potevi scrivere righe del genere, e un giornale poteva pubblicarle, senza che ti travolgessero le invettive di quelli che «io non arrivo alla terza settimana e tu fai la spiritosaaaa». Non posso rimpiangerlo, perché non ero neanche nata. Ma, soprattutto, perché non c’era l’aria condizionata.

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