In una prefazione a un’edizione americana di “Amori ridicoli”, negli anni Settanta, Philip Roth parla del realismo socialista scansato da Kundera dandone la definizione che aveva sentito da «un critico di Praga»: «Il realismo socialista consiste nello scrivere degli elogi al governo e al partito in modo tale che persino loro possano capirli».
Esiste oggi, nel realismo cuoricinista, la possibilità d’essere Milan Kundera e non Pasolini, Canetti e non Calvino, d’essere un intellettuale ritenuto rilevante senza essere scomponibile in comodi bocconcini predigeriti, senza fornire slogan da maglietta, senza esprimersi in forma riducibile a una card di Instagram, io so ma non ho le prove, e laleggerezzacalviniana che ormai è tutt’una parola?
Ora che persino Umberto Eco è diventato troppo sofisticato, troppo complesso, di troppo faticosa digestione per farne quel finger food culturale che è l’unico ormai tollerato dal delicato stomaco d’un grande pubblico che è intollerante al lattosio, al glutine, alle contraddizioni e alle parole non confermative.
Lo spiegava piuttosto bene il miglior articolo scritto in morte di Michela Murgia, da Michele Serra su Repubblica. «Murgia si è spavaldamente, a tratti perfino allegramente esposta come leader di un “tutto e subito”, e di un radicalismo anche linguistico, che potevano irritare o appassionare. Sicuramente molto spendibili in chiave social, laddove la dialettica è stritolata nella tenaglia degli amici e dei nemici, della ragione tutta da una parte o tutta da quell’altra. Logica binaria anch’essa, vale constatarlo. È molto probabile che la sintesi, l’“andare oltre”, il superamento di quella furente disputa di genere, e sui generi, per lei fosse la letteratura; non perché nei libri “parlasse d’altro”, ma perché ne parlava diversamente, meno condizionata dall’ansia di prestazione che costruisce buona parte del pathos social».
Solo che c’è un problema, che Serra non sottolinea un po’ perché è più beneducato di me, un po’ perché è uno di noi del Novecento, che non vogliamo rassegnarci a quanto siano residuali i settori che ci hanno allevati e nei quali ci ostiniamo a muoverci: i libri sono ormai un prodotto di nicchia non dico quanto le carrozze a cavalli, ma quasi. I libri non contano niente. I libri non li legge nessuno.
(Questo è il punto in cui quelli dell’industria editoriale mi spiegano che è fiorente, che fattura tantissimo, che i fumetti e i libri di ricette vanno fortissimo e li candidiamo pure allo Strega).
I libri non contano niente. È un’iperbole, ma non del tutto: per dare l’esame universitario su “Essere e tempo” non puoi leggerne più di tre capitoli, altrimenti sfori il punteggio. Chissà se a quel punto il vecchio Martin lo annoti tra gli autori amati sulle app di lettori forti, chissà tra quanti anni ci si potrà laureare in filosofia portando come bibliografia un podcast su Wittgenstein e delle slide su De Crescenzo (ufficialmente, dico; ufficiosamente, probabilmente già adesso).
Persino nei casi di grandi successi, quali sono stati i libri di Michela Murgia, i numeri sono quelli che vent’anni fa (per non dire cinquanta) avrebbero caratterizzato un insuccesso. Fino alla prima settimana di agosto, a qualche giorno prima della morte dell’autrice, “Tre ciotole”, il libro che era stato annunciato da un’intervista in cui Michela Murgia aveva detto d’avere poco da vivere, e che era stato primo in classifica per parecchie settimane, e poi era comunque rimasto tra i libri più venduti d’Italia, nei suoi primi tre mesi in commercio di quel libro lì erano state comprate novantamila copie.
Molta più gente ha visto un concerto di Ultimo (chiunque egli sia) nella sola Roma nel luglio 2023 di quanta in tutta Italia abbia comprato il libro col più potente lancio promozionale che autrice italiana abbia mandato sul mercato negli ultimi anni. E molta più gente seguiva Michela Murgia su Instagram di quanta ne comprasse i libri.
Michela Murgia è stata coerente fino all’ultimo con la propria identità di rompicoglioni. È morta ad agosto costringendo i suoi cari a tornare precipitosamente da posti mal collegati, ma soprattutto è morta nella settimana in cui Gfk, che si occupa dei rilevamenti delle vendite di libri, è inderogabilmente in ferie, non dando modo agli osservatori di quantificare il valore del decesso per le vendite. I numeri di quel che hanno venduto i libri della Murgia dopo la sua morte li avremo solo lunedì, ma non ci vuole una sacerdotessa di Apollo per immaginarli.
Lasciati senza Gfk, i poveri editori in settimana dovevano affidarsi all’impressionismo della classifica Amazon, dove un militare che si autopubblica i suoi penzierini, oggetto d’un quarto d’ora di scandalo per aver detto che mica è normale essere busoni, era primo, rendendo vieppiù cogente quella domanda che si faceva Enrico Vanzina secoli fa: come mai i bestseller non sono mai letti dai best reader?
Ma soprattutto costringendo noi tutti ad ammettere che quello editoriale è un mercato così minuscolo che un quarto d’ora di polemicuzza basta a portarti in cima alla classifica, sopra l’autrice più discussa dell’anno.
Inciampo del generale-vero-maschio a parte, dopo la morte dell’autrice tutti i libri di Michela Murgia saranno stati i più venduti di questo paese di lettori deboli, e nello scorso weekend “Tre ciotole” avrà superato le centomila copie. Che sono comunque meno della metà di quelli che per tre sere hanno riempito uno stadio romano per Ultimo, chiunque egli sia.
E un quinto di quelli che la seguivano nel posto che, se vuoi avere un pubblico in questo secolo, è ragionevole presidiare: il posto che illude il pubblico che non sia necessario esso s’affatichi, che non sia mica quello il punto d’avere un[’]intellettuale di riferimento. Insomma: Instagram.
Ogni volta che si parla di libri su un social, il posto dove dice la sua la gente che non sa esprimersi e non ha intenzione d’imparare, c’è sempre qualcuno che protesta: insomma, i libri sono troppo cari. Possono spendere ottanta euro per un concerto ma non venti per un libro? Certo che no: il verbo non è «potere» ma «volere».
Non vogliono essere costretti a fare la brutta fatica di concentrarsi su una pagina. Non vogliono buttare soldi per un’esperienza che non potranno instagrammare (ci siamo fatti distrarre da «resilienza», e abbiamo lasciato che quella gramigna lessicale e posturale che è «esperienza» attecchisse).
Non vogliono perdere tempo con duecento pagine quando basta e avanza l’intervista a Vanity Fair, di cui oltretutto c’è la versione video che si condivide molto più comodamente (e piace molto di più all’algoritmo) della foto alla pagina di giornale (quella sì residuale come e più dei libri).
Chi fa le pagine culturali, e avendo la smania di non sembrare fuori dal tempo pubblica anche gente con forte presenza social, racconta che quegli articoli sono caratterizzati da un’interessante schizofrenia: un pieno di cuoricini sulla card che promuove l’articolo sull’account social del giornale, epperò pochissimi lettori che si prendano il disturbo di cliccare per aprire l’articolo (aprirlo: «leggerlo» mi pare invero un’ipotesi impegnativa).
Grande consenso per la frasetta, pochissimo interesse per il ragionamento. D’altra parte, oltre a «esperienza», il concetto più in voga in questo disgraziato secolo è «empatia», e se promuoviamo il primato delle emozioni poi non possiamo pretendere che le opere d’ingegno vengano selezionate con un criterio diverso da quel «col cuore» che rende intercambiabili Barbara D’Urso e il premio Strega.
Molto si è parlato, privatamente e pubblicamente, del funerale di Michela Murgia. Del rito di massa e quindi inevitabilmente cafone in cui le orazioni funebri venivano interrotte da applausi come raccordi narrativi d’un qualunque concerto di Ultimo; di tizie che non si erano mai viste che si chiamavano l’un l’altra «sorella» e piangevano insieme per una che pure non avevano mai conosciuto; di Elly Schlein che cantava “Bella ciao” abbracciata a Francesca Pascale; di Roberto Saviano che diceva la sua orazione con una mano infilata nella cinta dei pantaloni.
A colpire me è stato un dettaglio del dopo. Il cameraman del sito di Repubblica era rimasto fuori dalla chiesa a inquadrare il niente, e a un certo punto gli si è piazzata davanti una tizia del Tg1 col mandato più difficile della giornata. Fermava le ragazze che uscivano dalla chiesa chiedendo «c’è qualcuna che è qui perché era una lettrice di Michela Murgia, perché leggeva i suoi libri?». Quelle la guardavano come fosse di trasparenza medusiaca: era uno spettacolo straziante.
Dopo un po’ Saviano è andato via, e sia il cameraman di Repubblica sia l’inviata del Tg1, che ha capito che le conveniva ripiegare su un obiettivo più semplice, l’hanno seguito fino alla macchina. Lei gli ha chiesto «un ricordo personale di Michela per il Tg1», e lui ha ottemperato: «I suoi libri non mi hanno mai fatto sentire solo, ed è questo che deve fare la letteratura».
Mi sono ricordata della pandemia, all’inizio, quanto eravamo chiusi in casa e tutte le persone famose facevano dirette su Instagram perché avevano deciso che era proprio quello il loro compito: non far sentir soli noialtri normali.
Ma quindi è davvero questo il compito della letteratura, o è quello di quell’ormai sinonimo della letteratura che è la celebrità? È il ruolo di Instagram e in subordine dei libri? Tenere compagnia alle nostre vite di silenziosa disperazione con parole talmente semplici che persino noialtri, noi abbastanza inattrezzati da applaudire in chiesa, possiamo capirle e sentirci accuditi? È questo il futuro del mercato dell’intelletto, se l’intelletto ha un futuro?