Opere instabiliA tu per tu con Steve Messam, il maestro dei gonfiabili e dell’arte effimera

Classe 1969, è diventato artista quasi per caso. Dopo esperienze nel campo della fotografia, da quasi trent’anni realizza installazioni dedicate alla campagna inglese e ai grandi centri urbani. I suoi lavori si sono fatti strada in tutto il mondo, arrivando a partecipare alla biennale d’arte di Shanghai nel 2006 e a quella di Venezia nel 2009

Tanti i parallelismi con il nostrano maestro dei gonfiabili Franco Mazzucchelli, che abbiamo raccontato un anno fa. È curioso constatare come un certo momento storico e l’evoluzione tecnologica dei materiali sintetici abbiano portato artisti lontani – sia a livello geografico, sia culturale – a sviluppare ricerche diverse, ma parallele: per entrambi i gonfiabili non sono intesi come manufatti finali, dal momento che la vera opera d’arte sarebbe da ricercare nell’interazione tra gonfiabili, spazio e persone. Entrambi, sebbene lavorino da decenni riscuotendo successo dalla critica e dal pubblico, si definiscono “artisti dilettanti”, perché devono molto della loro ricerca a una forma di auto-apprendimento e sperimentazione sul campo.

Infine, l’aspetto ludico, per cui l’arte fa da catalizzatore di empatia e socialità, è trasversale ed esplicitamente intenzionale per Messam quanto per Mazzucchelli. Sebbene tutti questi elementi comuni, i due maestri dei gonfiabili non potrebbero essere più lontani in termini di ideologia dell’arte: se per Mazzucchelli l’arte è in fondo sempre “bieca decorazione”, per Messam è invece una cosa serissima, lontanissima dal design e il suo legame con i gonfiabili è meno rigido, avendo realizzato tantissime opere, altrettanto effimere, con l’uso della carta.

È possibile definire l’artista italiano come “figlio” del XX secolo, un homo faber, una sorta di “sarto del PVC” che realizza in prima persona il manufatto, mentre l’artista inglese è invece sempre circondato da un team di esperti che realizza le sue visioni avveniristiche. Abbiamo perciò deciso di conoscere meglio Steve Messam e riflettere insieme sulle sue opere, ancora poco conosciute al grande pubblico italiano.

Come sei diventato artista?
Non ho mai studiato arte e ho iniziato come fotografo. Sono diventato artista, senza volerlo. Diciamo che mi sono ritrovato ad esserlo.

Cosa vuoi raccontare con la tua arte?
Non credo di voler dire alla gente come sentirsi o cosa sentire con la mia arte. È molto più importante che lo sperimentino loro stessi e che creino in questo modo dei loro ricordi.

Hai cominciato come land-artist soprattutto in ambienti rurali, ma da qualche anno lavori spesso in città: come mai questa trasformazione?
Vivo in una comunità molto rurale. E negli ultimi vent’anni il paesaggio rurale è stato molto importante per me: è quello che sono, è quello che respiro. Sono ancora molto dedito a ciò che l’arte può fare in un ambiente del genere e il potenziale di questo lavoro è affascinante. Il mio non è un lavoro da appartamento, ma per molte ragioni è difficile ricevere commissioni in un contesto rurale, piuttosto che in città. La verità brutale è che i soldi per la cultura sono concentrati nelle città. Quindi negli ultimi anni la maggior parte delle commissioni e del lavoro l’ho realizzato in grandi centri urbani. Per questo motivo anche la mia arte è vittima in qualche modo del processo di urbanizzazione post-industriale.

Il tuo lavoro sembra in ogni caso esistere solo in funzione di un ambiente complesso e articolato, sia esso urbano e rurale. Concepisci il tuo lavoro in una stanza vuota?
Sì assolutamente, perché lo riempirebbe. Non esiste uno spazio “nullo” e le mie opere di per sé sono “instabili” e invadono lo spazio: non hanno struttura e così da sempre impiego l’architettura per dargli la stabilità e farle elevare da terra. Quindi, alla base del mio lavoro c’è sempre una collaborazione tra spazio e manufatto gonfiabile. I miei lavori o riempiono i vuoti, o fuoriescono o abbracciano e comprendono le strutture da cui partono.

Negli anni però è evidente che ci sia stato un passaggio dalla natura all’architettura. Ce lo puoi raccontare?
È vero, forse però questi due aspetti più che essere alternativi ora coesistono: è stato un cammino, un percorso. Innanzitutto, i gonfiabili sono solo uno degli elementi con cui realizzo le mie opere. Per me è fondamentale la componente effimera nell’ambiente. Dopo il successo con i gonfiabili Balls to Grasmere del 2008, già nel 2015 con Paper Bridge qualcosa era cambiato. Realizzai un grande ponte in montagna e non utilizzai materiale gonfiabile, bensì carta: migliaia di fogli rossi pressati insieme e, riprendendo il principio architettonico dei muri a secco, facevano stare in piedi un vero ponte. Un progetto immenso a cui lavorammo per tre anni, ma fummo ripagati dal pubblico, che impiegava dalle tre alle quattro ore per andare a vedere l’opera. Lo considero oggi come una pietra miliare della mia ricerca, perché introdusse la componente umana nel mio lavoro e dove c’è l’uomo c’è architettura. Seguirono tutti lavori simili a questo nell’intento, come Paper Bridge, Waterfall and Hush: l’artificio effimero, la presenza transitoria dell’essere umano nel paesaggio. Questo pensiero si è evoluto e il cambiamento a cui ti riferisci è arrivato con l’installazione Apollo, nel 2019: è stato il primo dei miei pezzi in cui ho esplorato esplicitamente il potere dell’architettura. Allora ho capito e accettato che la mia arte potesse muoversi dove c’era l’essere umano, quindi anche in un contesto urbano.

Hai più volte ripetuto che la tua arte è intrinsecamente e intimamente effimera. Qual è il tuo sentimento e rapporto con il futuro?
La natura temporanea del mio lavoro è intenzionale, insita nel pensiero e nella pratica. Sono interessato agli aspetti del tempo all’interno dei pezzi. Le mie non sono mai sculture da conservare per sempre, sono un momento di tempo in un luogo. Catturano tanti singoli momenti e lavorano con un ambiente che non può che essere mutevole: il vento, la luce e le persone, tutto è parte integrante dei miei pezzi. Per quanto riguarda il futuro, i pezzi sono sempre qualcosa che è accaduto una volta nel passato. Ogni lavoro diventa quindi Storia.

Recentemente hai realizzato dei cuscini gonfiabili, che sono andati sold-out: arte o design?
Per me quello non è assolutamente design: sono multipli di un’espressione artistica ben precisa. Penso che arte e design siano in realtà più distanti di quanto possa sembrare. Il design è trovare soluzioni e l’arte è creare problemi. Si siedono nei mobili, negli angoli, proprio nel modo in cui i gonfiabili si siedono e funzionano in architettura.

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