Psiche e pischelliLa banalizzazione del trauma e quelli che credono nella paccottiglia scientifica

Prendere le teorie scientifiche e farne fideismi da analfabeti è la moda degli ultimi anni, come dimostra il caso di Bessel van der Kolk raccontato dal New York Magazine

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Come si monetizza il vittimismo? Certo: con monologhi dolenti sulla difficile condizione di [inserire qui categoria] da recitarsi su Instagram (o, se sei America Ferrera, in “Barbie”). Ma per le lagne seminuove vanno benissimo quei mezzi che sono più anticaglie, tipo i libri.

Bessel van der Kolk è un autore di bestseller che non avete mai sentito nominare, nonché la prova che le due frasi più stupide che si possano pronunciare in questo secolo sono «c’è uno studio che dimostra che» e «mi fido della scienza».

Il New York Magazine, che sa fare le copertine, ha deciso di occuparsi di questo signore che, con un trattato psichiatrico di cui nessuno avrebbe previsto la popolarità, ha fatto numeri che neanche i Recalcati del mondo. “The Body Keeps the Score”, pubblicato in America nove anni fa, ne ha trascorsi cinque nella classifica dei libri più venduti (gli ultimi cinque: è diventato popolare nel 2018).

In Italia è uscito nel 2015, col titolo “Il corpo accusa il colpo”. L’ha pubblicato Cortina, editore di settore di quelli i cui libri costano cari (nel caso di van der Kolk: ben 33 euro) e che di solito non compete coi Lingiardi impilati alla cassa delle librerie. Eppure: trentunmila copie.

Sanno fare le copertine, dicevo, e quindi anche senza leggere l’articolo (mica avete tutti la mia sterminata quantità di tempo, e il lusso di sprecarla) si capisce subito il senso: il titolo «Come l’autore di “Il corpo accusa il colpo” ha vinto una battaglia cinquantennale e reso “Trauma” la diagnosi preferita d’America» ha i colori e la grafica per cui “Trauma” evoca Tide, il Dash d’America. Signora, se le offrissi due fustini di trauma in cambio d’una vita senza recriminazioni?

Ricopio dall’articolo del New York invece di fare la fatica di sintetizzarvi io: «In un qualche punto del tragitto lungo gli anni di Trump, tra i “tagliategli la testa” del MeToo, la stagnazione introspettiva dei lockdown, e l’ascoltatore medio dei podcast del New York Times che scopriva il suprematismo bianco, il trauma è diventato la valuta inflazionata in cui vengono commerciate le nostre vite. Guardi da una parte, e c’è in diretta il principe Harry che parla del suo trauma in quanto componente di una monarchia ereditaria; guardi dall’altra, e libri come “Weathering” teorizzano che la violenza nelle classi inferiori, impoverite e razzializzate, dovrebbe essere compresa in quanto un trauma epigenetico attraversa le generazioni. Nel golfo che separa un principe inglese e, per dire, un adolescente nero povero della periferia di Chicago, si colloca la vasta gamma dell’esperienza umana, che sempre più pare ricadere nell’ambito del trauma».

Il trauma, sintesi mia, ha quindi lo stesso problema del sessismo: è una definizione troppo ampia per servire a qualcosa. Se tutto è trauma, niente è trauma.

E infatti, spiega l’articolo mettendo in termini divulgativi centovent’anni di psicanalisi, neppure Freud aveva le idee chiarissime su come andasse definito il trauma, quando si mise a studiare il piccolo Hans, il bambino la cui caduta da cavallo, cent’anni dopo Luigia Pallavicini, non originò una poesia ma l’intera teoria edipica. Il trauma viene inflitto da un evento esterno, o l’evento esterno si limita a far esplodere una nevrosi pregressa?

Certa che non vi aspettiate che la risposta ve la dia io, vi traduco qualche altra riga che mi è comparsa sull’Instagram d’una bionda proprio mentre leggevo di van der Kolk (Jung parlerebbe di sincronicità, e di certo Gwyneth Paltrow legge abitualmente Jung).

«La solitudine è una condizione umana, ma negli ultimi anni l’accresciuto isolamento e la mancanza di una comunità hanno reso le nostre vite ancora più frammentarie. Airbnb ha avuto la splendida idea di fare qualcosa per rendere il mondo un po’ meno solo, che è la ragione per cui vi invito a stare nella dépendance nella mia casa di Montecito. Magari partiremo come estranei, ma nel corso d’un pasto delizioso spero che troveremo connessioni e punti in comune. State in piscina, fate una passeggiata nei dintorni, e naturalmente, per un soggiorno davvero di lusso, in bagno avrete i miei prodotti Goop preferiti».

Gwyneth Paltrow a ventisei anni ha vinto un Oscar, a cinquanta è un’imprenditrice di successo con, appunto, Goop, il che la rende di gran lunga la più simpatica tra quelle che lucrano su concetti imbecilli e fittizi quali il benessere e il lifestyle. Adesso evidentemente si è messa a fare l’affittacamere, non credo perché le servono le non so quante centinaia di dollari che noi sfigati qualunque pagheremo per dormire nella sua stanza degli ospiti. Più probabilmente, perché un qualche consulente per l’immagine le ha detto che la gente non la percepisce abbastanza alla mano. Fatto sta che come vende, Gwyneth, questa trovata? Come un’abitante del secolo di van der Kolk: combattiamo il trauma della solitudine.

In realtà il discorso su van der Kolk sarebbe molto più complicato. Parte dal momento in cui, poco più di quarant’anni fa, la psichiatria deve decidere se esista o no il disturbo post-traumatico (che doveva essere una codificazione utile ai veterani di guerra ed è diventato un po’ tutto: i vostri figli che hanno fatto lezione su Zoom mica vorremo dire che non hanno il disturbo post-traumatico?); passa per le guerre che non si combattono più nei posti dove sono state dichiarate (Donald Draper che ha visto morire il suo capitano al fronte e poi gli ha rubato l’identità ha la giustificazione del trauma, ma allora anche chiunque abbia visto morire quelli che si buttavano dai grattacieli l’11 settembre: siamo tutti traumatizzati, persino quelli che non hanno mai fatto lezione su Zoom; tutti, cioè nessuno).

E approda alla parte pericolosa dell’indagare nel passato per trovare il trauma originario che sta alla base delle reazioni inspiegabili, dei modi in cui il corpo cerca di dirci qualcosa: i falsi ricordi, dall’incesto alle molestie negli asili (casi noti nella cronaca italiana). La memoria umana è inaffidabile in condizioni normali, figuriamoci quando si fa un’indagine in base a delle convinzioni.

Il tutto aggravato da quel che il New York chiama “letteralismo traumatico”, cioè van der Kolk masticato e risputato in pappette digeribili su TikTok (inspiegabilmente assenti dall’articolo le psicologhe di Instagram), dove non mancano mai tre comodi esempi d’infanzia infelice che somigliano proprio a quelli che potresti raccontare tu e che fanno di te, evviva, un soggetto traumatizzato.

Può van der Kolk permettersi di prendere le distanze da una popolarizzazione per niente scientifica del suo lavoro? Certo che no: è il prezzo della fama. Prendere le teorie scientifiche, e farne fideismi per analfabeti che dicono «credo nella scienza» ignari che la scienza stessa non sia d’accordo con sé stessa negli anni e nei decenni: è così che si fanno i fatturati importanti.

«Questa gente che si dice traumatizzata dalle minutaglie: il mio libro non c’entra con questo. Se la gente lo usa per questo, problemi suoi, ma non cercate di coinvolgermi». Ma, dottore, mica penserà che avrebbe venduto tre milioni di copie solo coi veterani dell’Afghanistan?

L’altro giorno su Instagram, a una signora che si occupa di buone maniere, ha scritto una tizia chiedendo soccorso per un grave fatto occorsole: «Il mio capo mi ha scritto sul cellulare personale invece che su quello del lavoro: mi sono sentita violata». Sarà colpa della psicologizzazione di massa in generale, del MeToo, di Instagram, di chiunque fatturi con l’altrui fragilità e non solo di van der Kolk, certo.

Però c’è una ragione se negli anni Novanta van der Kolk veniva considerato, da Harvard, un cialtrone le cui bislacche teorie – sull’odore dell’arbre magique che ti induceva una crisi di panico perché era lo stesso che avevi sentito nel momento del trauma – non ne facevano un nuovo Proust ma uno che non aveva il permesso di comparire nelle pubblicazioni scientifiche se non preventivamente autorizzato; e trent’anni dopo è uno che è diventato ricco con le stesse bislacche teorie.

Quella ragione è la tizia che si sente violata da un messaggio a un numero invece che a un altro. Quella ragione è che qualunque stronzata decidiamo di raccontare in questo secolo ci sarà uno studio che la dimostra, perché qualunque materia ha dignità universitaria e qualunque studio ha dignità di pubblicazione e qualunque accademia ha il terrore di perdersi un trend di TikTok. Quella ragione siamo noi, che non abbiamo un talento, non abbiamo capacità di impegnarci, non abbiamo valore di mercato che non sia: anch’io soffro, ho il diritto che il mondo mi si fili.

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