Rimparare a nuotareLe soluzioni e le disuguaglianze sono i due grandi vuoti del dibattito sul clima

L’antidoto al negazionismo è il mix tra pacatezza ed entusiasmo con cui bisognerebbe approfondire la pervasività dei cambiamenti climatici, che stanno già stravolgendo quasi tutti gli aspetti delle nostre vite. È sacrosanto sottolineare (anche con insistenza) i record negativi, gli allarmi e le conseguenze dell’inazione, ma i tempi sono maturi per fare un passo in più

AP Photo/LaPresse

Nell’epoca della feticizzazione dell’emergenza, la presenza della crisi ecoclimatica nell’agenda dei media e della politica è direttamente proporzionale alla gravità e alla concretezza delle sue conseguenze all’interno delle vite degli esseri umani. Non si tratta di un segnale confortante, considerando tutti i campanelli d’allarme diffusi dalla comunità scientifica negli ultimi decenni. Per natura, purtroppo, l’homo sapiens (specialmente se residente nella fragile e affascinante penisola italiana) ha la pericolosa abitudine di restare braccia conserte finché non “scappa il morto”, quando il danno, insomma, è già fatto. Parzialmente o totalmente.  

Negli ultimi due mesi abbondanti, l’Italia è stata scossa da un paio di eventi – le alluvioni in Emilia-Romagna e le ondate di calore – che hanno permesso ai temi climatici e ambientali di posizionarsi in cima al dibattito pubblico non per giorni, ma per settimane. Non era probabilmente mai successo, nemmeno durante le fasi più critiche della crisi idrica del 2022 o dopo la tragedia della Marmolada. 

Da una parte è un fattore positivo, considerando che il cambiamento climatico era un argomento di nicchia prima dell’Accordo di Parigi del 2015. Dall’altra, questa attenzione mediatica ha scongelato o alimentato i sentimenti negazionisti di tanti cittadini, più o meno esposti pubblicamente, incapaci di fare una distinzione tra meteo e clima, di leggere l’abstract di un report accademico o di interpretare le grafiche dell’Ipcc sugli “scenari di riscaldamento”.

In mezzo allo scannatoio social, stanno fortunatamente spiccando anche le voci autorevoli che parlano di allarmi, rischi, nuovi record negativi (talmente tanti che è impossibile tenere il passo) e mappe ricoperte di rosso che non avrebbero bisogno di didascalie. Ed è un bene, perché un’ondata di calore come questa – ora eccezionale ma destinata a diventare un fenomeno sempre più frequente e, quindi, normale – va sottolineata, spiegata e rispiegata. 

Da questo punto di vista, l’informazione ha fatto un salto di qualità evidente. Ecco perché i tempi sono maturi per alzare ulteriormente l’asticella: bisogna parlare più concretamente e approfonditamente di soluzioni e diseguaglianze, i due vuoti più grandi del dibattito sull’emergenza ambientale e climatica. 

Ogni cittadino mediamente istruito e con una connessione a internet ha gli strumenti per capire, anche a grandi linee, gli scenari futuri. Non vuol dire avere la sfera di cristallo, ma interpretare correttamente numeri e previsioni su cui ormai tutta la comunità scientifica è allineata. Spoiler: il mondo che ci attende non è invitante, ma rimane il nostro mondo e qui dovremo continuare a vivere. 

Sappiamo che per invertire la tendenza bisogna ridurre drasticamente le emissioni di gas climalteranti, ma ciò non sta avvenendo in modo rapido e omogeneo. E la lotta ai cambiamenti climatici è la sfida globale per eccellenza. La colpa non è tua, che non hai una borraccia e continui ad acquistare bottigliette di plastica. La soglia dei +1,5°C di temperatura media rispetto ai livelli preindustriali è l’unica speranza per mantenere il mondo simile a come lo conosciamo oggi, ma è troppo tardi per farcela. Il ritmo del peggioramento, però, è ancora sotto il nostro controllo. E non è poco. 

Dobbiamo completamente ripensare il nostro modo di vivere, e il dibattito in corso in Italia sullo stop alle attività lavorative dopo una certa temperatura ne è la conferma. In Germania, addirittura, c’è chi pensa di introdurre la siesta (o la contróra, per intenderci) come tregua contro un caldo sempre più ostico per l’organismo di grandi e piccini. 

Stanno nascendo figure professionali come quella del chief heat officer, ossia il manager che si occupa della gestione e della mitigazione degli effetti del calore nei centri urbani. Le città stanno diventando delle grandi e insopportabili isole di calore, ma alcune – con lungimiranza – hanno già imboccato la via del cambiamento. Il problema, però, è che tematiche come le nature based solutions, la piantumazione (intelligente) di alberi e il riutilizzo dell’acqua piovana sono ancora poco pop. Il risultato? Ne sottovalutiamo l’importanza, perché viviamo nell’epoca della spettacolarizzazione di ogni singolo aspetto della nostra esistenza. 

Si potrebbe scrivere un libro su come la crisi climatica sta cambiando, e cambierà, la società, l’economia, l’energia, il turismo (lo sci, ad esempio, non ha futuro), l’alimentazione, il lavoro, la salute (fisica e mentale), i rapporti diplomatici tra Paesi, i fenomeni migratori, la moda. E servirebbe un’enciclopedia per elencare e spiegare le soluzioni per mitigare i rischi e provare a galleggiare in questo “nuovo mondo”, ancora poco conosciuto ma con cui dovremo prendere dimestichezza. Un po’ come è successo durante la pandemia.  

L’errore più grande sarebbe dimenticare che, secondo Oxfam, il settanta per cento degli eventi climatici estremi avvenuti tra il 2000 e il 2021 si è verificato in Paesi a basso e medio reddito. Che sono anche gli Stati meno responsabili della crisi e più vulnerabili in termini sociali, economici e infrastrutturali. Ma le disuguaglianze create dai cambiamenti climatici sono anche interne, quindi più insidiose da catturare dentro studi, grafici e report. Le ondate di calore colpiscono in modo diverso un asfaltista e un impiegato; chi possiede una piccola azienda agricola o un locale in centro città; chi abita in un quartiere povero iper-cementificato o in un quartiere ricco, gentrificato e pieno di viali alberati, aiuole e parchi. 

L’antidoto al negazionismo è il mix tra pacatezza ed entusiasmo con cui giornalisti, comunicatori, influencer, imprenditori, scienziati e professori dovrebbero approfondire la pervasività dei cambiamenti climatici di origine antropica. Porre enfasi sui record (per dirne uno, quello del 2023 è stato il giugno più caldo di sempre), sugli allarmi imminenti e sulle conseguenze dell’inazione è sacrosanto. E continueremo a farlo. 

Dopo, però, bisogna parlare (bene) di soluzioni e fornire a chi legge-guarda-ascolta la bussola per orientarsi in questo “nuovo pianeta”, avvalendosi sempre dell’esperienza e del trascorso dei membri della comunità scientifica. Altrimenti c’è il rischio di risultare stucchevoli, ridondanti e persino in cattiva fede, cadendo nella trappola dei negazionisti e riduzionisti climatici. 

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