Antonio Talia ha scritto un libro importante e si intitola “La stagione delle spie” (Minimun Fax, 2023). Un reportage asciutto, su un tema complesso, quello delle interferenze, dei bug di posizionamento di alcuni governi occidentali nei confronti della Russia di Putin e dei casi di corruzione di membri degli apparati di varie agenzie di intelligence.
Una storia che si snoda tra molte storie, dove i furti dei dossier, le sparizioni, i viaggi sospetti e gli scambi di denaro e device nei parcheggi dei supermercati sono il particolare che fa emergere il dato generale: l’offensiva di Mosca nei confronti delle nostre democrazie è iniziata da molto tempo e quasi non ce ne siamo accorti.
Nel libro si comprende bene come l’alternarsi delle fasi politiche determini una diversa concezione della tutela dei propri interessi nazionali e come il quadro delle alleanze e degli atteggiamenti pubblici abbia esposto il nostro Paese ad una perdita di affidabilità nei confronti dei nostri alleati storici del Patto Atlantico.
C’è un prima e un dopo in questo libro, quel prima e dopo è legato a doppio filo alla presenza di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, infatti fino a quando “l’avvocato del popolo” ha trattenuto a sé la delega ai Servizi, l’Italia è stata attraversata da episodi clamorosi che hanno avuto una fase disvelamento quando Mario Draghi ha nominato il prefetto Franco Gabrielli come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega di Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica. Storia tra le storie che Talia racconta senza mai cedere il passo al sensazionalismo o al voyeurismo tipico di un certo giornalismo italiano.
“La stagione delle spie” pone al centro alcuni fatti di cronaca accaduti tra l’Italia, la Russia, il Portogallo, gli Stati Uniti. Puntini distanti che se uniti compongono una strategia.
La domanda che mi sono fatto leggendo il libro è: dove erano i servizi di intelligence e la politica occidentale in tutto questo tempo?
Durante le ricerche per “La stagione delle spie” ho avuto conferma di un’ovvietà che però noi cittadini non dovremmo mai dimenticare: nelle nazioni democratiche i servizi di intelligence sono l’emanazione diretta dell’esecutivo, quindi risentono inevitabilmente della fase politica che il Paese sta vivendo in quel momento. Mentre in tutta Europa le agenzie russe sfoderavano una strategia sempre più aggressiva, i servizi di intelligence erano precisamente dove si trovava la politica: i servizi italiani hanno ottenuto successi notevoli, come l’individuazione della talpa francese «Marc L.» nella base Nato di Lago Patria e allo stesso tempo hanno assistito immobili all’evasione di Artem Uss, milionario rampollo di un governatore siberiano che trafficava in armi vietate dall’embargo contro la Russia.
Si tratta di apparati diversi?
No, sono sempre le stesse strutture, con lo stesso addestramento e spesso magari si tratta delle stesse persone. Eppure le agenzie si sono mosse in modi diversi a seconda dell’indirizzo politico. Non è un caso, mi pare, se il caso Biot scoppia durante il governo Draghi. E non è un caso se tra il Conte Uno e il Conte Due, l’Italia invece restituisce alla Russia il ricercato Alexander Korshunov, un colonnello che aveva iniziato la sua carriera ai tempi del Kgb e stava saccheggiando tecnologie di uso militare. Ho tentato di capire dove si trovasse la politica italiana in quel frangente e ho provato a chiedere all’ex primo ministro Giuseppe Conte e all’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede perché hanno scelto di rimpatriare Korshunov a Mosca – peraltro contraddicendo le loro posizioni sul tema delle forniture militari dato che Korshunov, alla fine, era un trafficante di armi – ma non ho ricevuto risposta né da Conte né da Bonafede.
L’ultima invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio del 2022 è l’inizio di una nuova fase anche nella vita dell’intelligence e dei servizi. Cosa sta cambiando in questo panorama?
Credo che per quasi vent’anni abbiamo tutti vissuto all’ombra del «fantasma di Pratica di Mare», come nel libro mi racconta una fonte che conosce molto bene Mosca: l’illusione che con la «war on terror» si potesse collaborare con la Russia contro il terrorismo islamista, magari anche chiudendo un occhio sulle atrocità che già allora Putin disponeva in Cecenia. Poi, forse all’inizio degli anni Dieci, si è assistito a un progressivo risveglio: Putin disponeva le sue pedine in Siria a sostegno del regime di Assad, diffondeva propaganda capace di saldare frange estreme delle opinioni pubbliche occidentali che spaziano dai sovranisti ai pasdaran anti-Nato, metteva a segno colpi come l’invasione della Georgia nel 2008 e intanto si intrufolava nel referendum sulla Brexit e nelle presidenziali americane. È stato un risveglio lento, ma è avvenuto. Credo che adesso non esista un’agenzia di intelligence occidentale che sottovaluti la minaccia russa. Una delle interviste più interessanti che ho fatto è stata con «Otso», lo pseudonimo di un alto funzionario dell’intelligence finlandese: loro, come altri Paesi scandinavi e baltici, sono in prima linea, e al netto di qualche eccesso che a volte sconfina nella paranoia sembrano più avanti di noi nel trattare la questione.
Il modo con cui leggiamo sui giornali storie come quelle di Walter Biot, del professor Mifsud, sono spesso alterate da una narrazione che tratta queste vicende con un taglio romanzesco, nel tuo libro invece riusciamo a comprendere che la posta in gioco è altissima.
La posta in gioco è altissima, ma il fattore umano è cruciale. I funzionari delle agenzie di intelligence sono professionisti molto addestrati ma rimangono pur sempre esseri umani e tutte le ricostruzioni che li dipingono come supereroi o come super cattivi sono per forza di cosa versioni infantili della realtà. L’aspetto umano è quello più affascinante: per esempio, ho incontrato di persona Frederico Carvalhão Gil, un alto funzionario dell’intelligence portoghese che secondo due sentenze di condanna ha scelto di collaborare con la Russia e mi sono ritrovato di fronte a una persona molto più interessante di tanti personaggi da romanzo. Carvalhão Gil è un filosofo di formazione, è versato in scienze politiche, è esperto di storia delle religioni e, allo stesso tempo, da giovane ha condotto molte operazioni sotto copertura. Ovviamente penso che abbia cercato di manipolarmi, ma forse, per un momento brevissimo sono riuscito a intravedere il movente che lo aveva spinto a collaborare con la Russia e a rovinarsi la vita. Mi interessava che si definisse e si raccontasse nei suoi termini, non solo in quelli dei verbali dell’accusa. Mi sembra una cosa molto più sorprendente di qualsiasi operazione speciale supertecnologica.
Negli ultimi giorni il caso di Irina Osipova è venuto alla ribalta, sintomo di una penetrazione profonda di alcuni ambienti legati all’FSB e all’ambasciata russa che sono riusciti ad effettuare nelle istituzioni italiane. Quando, a tuo avviso, il ventre del nostro Paese si è indebolito?
Non saprei. L’Italia ha sempre avuto una posizione dialogante con la Russia fin dai tempi dell’Unione Sovietica. Forse è l’opinione pubblica italiana che si è indebolita e una certa politica l’ha intercettata, oppure l’ha anticipata: Vladimir Putin è riuscito a fare leva su alcuni tratti salienti dell’italiano come il vittimismo, la dietrologia, un certo complesso d’inferiorità e la convinzione di saperla sempre più lunga degli altri.
Si parla spesso di una riforma dei servizi segreti, la creazione di un’agenzia unica di coordinamento. Analizzando le criticità dei sistemi di intelligence internazionali credi possa essere un punto di forza contro le interferenze?
No, affatto. È vero che a volte agenzie diverse come Aise e Aisi si pestano i piedi a vicenda, però tutti i sistemi di intelligence delle liberal-democrazie si basano sulla dialettica tra due agenzie, così come si basano sull’indirizzo politico dell’esecutivo. Questa struttura consente, appunto, una certa dialettica. Per intenderci: quando durante il governo Conte Due, l’Attorney General americano, William Barr si è presentato ai vertici della nostra intelligence chiedendo di collaborare con la delirante inchiesta voluta da Donald Trump per dimostrare che l’Italia di Matteo Renzi aveva partecipato a un complotto di Barack Obama e Hillary Clinton per screditare lo stesso Trump, i direttori delle due nostre Agenzie, sono rimasti educatamente ad ascoltarlo, poi si sono alzati e se ne sono andati in polemica con i loro stessi superiori. Non credo che un’agenzia unica potrebbe avere gli stessi margini di manovra: basta che un Presidente del Consiglio ci piazzi uno yes man e saltano tutti i filtri.
Dopo l’estate viene l’autunno. Che stagione arriverà dopo quella delle spie?
Non lo so, la «spiologia» è già un esercizio difficile, figurati la «spiomanzia»! Di sicuro la politica è un elastico e l’intelligence la segue come un’ombra: se domani l’indirizzo politico cambiasse – e, ad esempio, fossimo più accomodanti verso l’invasione russa dell’Ucraina – probabilmente ci ritroveremmo a vivere una stagione da impazzimento climatico.