Gop for UkraineLa campagna per non abbandonare Kyjiv dentro il Partito repubblicano americano

Con spot in tv e cartelloni, il progetto politico punta a ricordare alla base e ai parlamentari che la difesa della democrazia nel mondo è parte del loro Dna, contro l’isolazionismo trumpiano. «Putin è un nemico dell’America», dice il portavoce a Linkiesta

La corona di fiori portata a Kyjiv da Biden a febbraio
La corona di fiori portata a Kyjiv da Biden a febbraio (AP Photo/Efrem Lukatsky)

«Se diventerò presidente, darò assolutamente all’Ucraina tutto ciò di cui avrà bisogno per sconfiggere la Federazione Russa». Sono parole di Mike Pence, ex vicepresidente americano, e sono una rarità nel dibattito per la nomination repubblicana alla Casa Bianca. Pence è uno degli unici due candidati a essere stato in Ucraina – l’altro è l’ex governatore del New Jersey, Chris Christie, già sparito dai radar dei sondaggi. In quei grafici veleggia Donald Trump, al cinquantacinque per cento, che millanta da tempo di avere la soluzione per far finire la guerra in un giorno, o giù di lì.

Se ha un piano così efficace, presto, ce lo sveli, gli ha risposto Volodymyr Zelensky, a New York per intervenire alle Nazioni Unite. «Può condividere pubblicamente la sua idea, per non perdere tempo né persone», ha detto Zelensky in una serie di interviste televisive, tra Cnn e Abc. «Il desiderio di far terminare il conflitto è bello, ma dovrebbe essere basato sull’esperienza vissuta: Trump, mi pare, ha già avuto le sue ventiquattro ore quando era in carica. Eravamo già in guerra, non una di vasta scala, ma ha avuto la sua occasione. Forse aveva altre priorità».

Anche il Partito repubblicano, dove la dottrina «Maga» è egemone, sembra avere altre priorità. Oltre al tycoon, lo speaker della Camera Kevin McCarthy ha detto in passato che Washington non deve «assegni in bianco» a Kyjiv e ieri ha negato a Zelensky un discorso alle sezioni unite del Congresso. Il governatore della Florida Ron DeSantis, secondo nelle preferenze, ha parlato di «disputa territoriale», prima di rimangiarsi l’errore. «Non un singolo penny» in aiuti militari, ha promesso un’altra figura molto rumorosa, Marjorie Taylor Greene. Ma c’è un pezzo del Gop che non si rassegna a questo isolazionismo masochista e intende ricordare alla base quali sono i suoi valori fondativi.

La campagna si chiama «Republicans for Ukraine» e si tira fuori dalle primarie. Ha raccolto due milioni di dollari in settimane più che mesi, punta a fare pressione sui parlamentari mentre molti di loro nicchiano sul nuovo pacchetto di fondi da ventiquattro miliardi di dollari messo in campo dall’amministrazione di Joe Biden. «Abbiamo mobilitato gli elettori repubblicani, sconcertati, che vogliono che il Gop combatta per i suoi ideali tradizionali: sostenere le democrazie nel mondo», spiega a Linkiesta il portavoce del progetto, John Conway.

A livello mediatico, il comitato manda camion con cartelloni pubblicitari nei collegi dove i leader si giocano la conferma. Ha poi acquistato spot da trasmettere su Fox News, anche la sera del secondo dibattito repubblicano, previsto il 27 settembre. In quei trenta secondi si ricorda quanto sia conveniente l’«investimento»: con il cinque per cento del budget per la Difesa americano, l’esercito ucraino sta dimezzando il potenziale offensivo di un nemico degli Stati Uniti, Vladimir Putin. Si tratta di mandare «armi dai magazzini, non le truppe», ribadisce l’adv.

Un’altra iniziativa, coperta anche dal Washington Post, ha fatto notizia perché ha assegnato una pagella ai rappresentati del Gop in Campidoglio. È efficace anche cromaticamente, con il verde per i promossi e il rosso per i bocciati, che sono circa un terzo. Esamina sia le dichiarazioni sia come i politici hanno votato sui provvedimenti di assistenza a Kyjiv. Nelle schede prevalgono – per ora – le valutazioni positive, ma molti potrebbero assecondare l’«intorpidimento» degli elettori conservatori: stando a una rilevazione di Fox, il cinquantasei per cento di loro ritiene sia il caso di tagliare i finanziamenti (erano il trentotto per cento a dicembre 2022). Ventinove tra senatori e deputati hanno firmato una lettera contro nuovi aiuti.

Si cerca anche di far leva sulla rivalità con Pechino. Tesi condivisa, recentemente, anche da Nikki Haley: «Se l’Ucraina vince, sarà il più grande messaggio alla Cina». Tutto questo, qualche anno fa, era la norma per il Gop. Era il suo Dna, il core business, una delle proverbiali credenziali dei suoi candidati. «Il partito è cambiato dalle fondamenta con Donald Trump – racconta Conway –. L’ha trasformato a sua immagine e somiglianza. Il movimento “America First”, a cui lui ha spalancato le porte, ha rappresentato una svolta molto isolazionista».

Per Conway i repubblicani sono oggetto di «pressioni incrociate». Una è questa, l’alta fedeltà trumpiana. L’altra è la tradizione ereditata da Ronald Reagan e George W. Bush. Se la prima prospera più della seconda, il (de)merito è di una serie di «personaggi» che hanno sguazzato nella retorica del disimpegno globale. Gente come Steve Bannon, Tucker Carlson (il cui show itinerante su X somiglia a un club del nazionalismo peggiore, da Viktor Orbán all’argentino Javier Milei), la già citata Greene. Voci polarizzanti che hanno silenziato quelle più ragionevoli. «Il nostro lavoro è contrastarle», dice il portavoce.

Vanno combattute – «su questo punto», cioè l’abbandono dell’Ucraina e degli alleati europei – quelle che lui chiama «le forze scatenate da Trump» nel partito. Il feed sui social è animato dai volti dei «veri elettori», da tutti gli States. Si filmano nelle loro cucine o camere mentre ricordano che «Putin è una minaccia, non solo per gli Usa ma per il mondo», oppure che «l’Ucraina sta dalla parte della libertà e dell’indipendenza, la Russia da quella della tirannia e della schiavitù». Vorremmo fossero ovvietà, ma nei talk delle reti via cavo come in Italia sono troppo spesso una delle due “campane”: l’altra è la propaganda del Cremlino.

Republicans for Ukraine, s’è detto, vede in questa battaglia anche quella per il futuro, se non per l’anima, del Gop. Annunciando l’addio al Senato al termine del mandato, Mitt Romney (uno che l’ortodossia trumpiana ha reso un eretico) non ha perso la speranze. Come ha sterzato verso il populismo, il partito un giorno potrà fare l’inverso. «Penso Romney abbia ragione – conclude Conway –. Se non ritenessimo che il Partito repubblicano possa cambiare, essere riformato, non ci impegneremmo in questo progetto. Crediamo esista ancora una sua grossa parte, aperta al nostro messaggio». Prima che sia troppo tardi.

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