“Fammelo carico dai, e mettici poco ghiaccio” è nella top ten delle frasi più odiate dai bartender quando i clienti ordinano un cocktail. Prima di tutto perché le modalità del fare da bere sono profondamente cambiate con l’avvento del nuovo millennio e di quella che, negli Stati Uniti, è stata definita la Cocktail Renaissance: un movimento diffusosi in tutto il globo con l’obiettivo di riportare in auge ricette classiche e dimenticate, alzando l’asticella in termini di gusto e servizio.
Dai beveroni con gradazioni alcoliche indicibili, preparati con ingredienti di scarsa qualità, si è passati quindi a un nuovo concetto di miscelazione, attenta alle preparazioni home-made e alla scelta di prodotti premium con filiere tracciate, mescolati ottenendo, il più delle volte, dei cocktail a bassa gradazione alcolica, per mantenere un gusto eccellente e risultare meno pesanti.
In questa rivoluzione, che ha eliminato ombrellini e decorazioni trash dai bordi dei bicchieri in favore di un look più minimale, un elemento tra tutti si è finalmente preso la sua meritata attenzione: il ghiaccio. Nuovo protagonista nei bicchieri collins e nei tumbler bassi, è oggi considerato a tutti gli effetti l’ingrediente fondamentale dei cocktail on the rocks (serviti con il ghiaccio, appunto). Grazie a forme compatte come sfere, cubi e parallelepipedi, che stanno rapidamente sostituendo i cari e vecchi cubetti, e all’attenzione alla purezza dell’acqua con cui vengono realizzati, il livello della bevuta si è notevolmente alzato.
Ma come capire se il ghiaccio che viene proposto al bancone del bar è veramente di qualità? Ce lo racconta Dom Carella, mixologist e imprenditore, fondatore di Carico Milano e consulente per diversi locali italiani e internazionali.
Più cocktail e meno ghiaccio? Non c’è niente di più sbagliato
Poche settimane fa il mondo dei social si è indignato insieme a Giulia Salemi, dicendo basta ai cocktail con grandi cubi di ghiaccio che, secondo l’influencer, sarebbero colpevoli di annacquare troppo la miscela.
«Sfatiamo subito questo mito: meno ghiaccio nel drink non vuol dire più alcol. Un Negroni sarà sempre fatto con tre centilitri di bitter, tre centilitri di vermouth e tre centilitri di gin, lavorato prima e versato nel bicchiere. La differenza è che, con pochi cubetti, dopo due minuti berrai una zuppetta, mentre con un cubo di ghiaccio grande e puro avrai una diluzione molto più lenta, oltre al mantenimento della temperatura di servizio perfetta», svela Carella. «Consistenza, tempo e temperatura sono i tre elementi che concorrono alla buona riuscita del drink e il ghiaccio li influenza direttamente tutti e tre».
Va da sé che la qualità di questo elemento, un alimento a tutti gli effetti, non può assolutamente essere trascurata, al pari del bicchiere e degli altri ingredienti della miscela che il bartender andrà a servire.
La materia del ghiaccio
Il primo strumento che un cliente ha a disposizione per comprendere il livello del ghiaccio nel bicchiere è un’analisi visiva. «La trasparenza rivela il fattore della pulizia, in correlazione alla durezza del ghiaccio. Quando osservi un cubetto con delle inclusioni bianche vuol dire che all’interno sono rimaste aria o, nel peggiore dei casi, altre impurità. Se invece è completamente trasparente, quel cubo è idoneo», prosegue Carella. «Un ghiaccio di qualità viene realizzato con un’acqua osmotizzata, un liquido potabile proveniente dagli acquedotti che subisce filtrazioni e purificazioni importanti per eliminare calcare, residui di sali minerali e sostanze potenzialmente nocive per la salute».
Grazie all’osmosi inversa si ottiene quindi un’acqua molto leggera che diventa la base per procedere alla produzione di grandi lastre, da cui poi vengono intagliati i singoli cubetti. «Per ottenere un ghiaccio trasparente è necessario procedere con un lento raffreddamento mentre, attraverso un processo pilotato, eventuali residui calcarei e di umidità vengono direzionati su un lato e poi eliminati dalla lavorazione. Quello che rimane è un ghiaccio pulito e perfetto», racconta il mixologist a proposito delle fasi produttive.
La forma perfetta
Se la purezza è importante, lo è altrettanto la forma perché influenza direttamente l’impatto termico del ghiaccio sul cocktail. «Lo scambio termico si misura sulla superficie di ghiaccio direttamente a contatto con il liquido. I cubetti hanno tante faccette di contatto di piccole dimensioni, che andranno a diluirsi molto velocemente. C’è quindi grande differenza tra cento grammi di cubetti e un unico cubo da cento grammi: il secondo si scioglierà più lentamente», svela Carella.
«La forma migliore in assoluto è la sfera, perché non ha angoli ed è massa critica intera. È infatti la preferita dei giapponesi, veri maestri della tecnica dell’ice-carving con cui, grazie a strumenti detti ice pick (a una o più punte) intagliano sfere perfette partendo dai cubi di ghiaccio. Uno spettacolo da vedere e un sinonimo di altissima qualità per il cliente finale».
Per facilitare le operazioni di taglio del ghiaccio nei suoi locali l’imprenditore, insieme al fabbro Michele Massaro, ha sviluppato uno strumento detto Ice Rooster: una sintesi tra ice-pick, martelletto e lama molto utile per padroneggiare l’ice-carving durante il servizio al bancone.
Ghiaccio home-made o certificato?
Con l’avvento di macchinari sempre più all’avanguardia, oggi tutti i locali possono fabbricarsi del ghiaccio puro direttamente “in casa”. Chi non può (o non vuole) investire in questa direzione, ha comunque la possibilità di offrire una materia pura, acquistando cubi, sfere e parallelepipedi da aziende terze che li producono e ne certificano la qualità. Ma quale delle due strade è la migliore? Secondo Carella, indubbiamente, la seconda.
«Come tutti gli strumenti da lavoro, la macchina del ghiaccio va pulita più di una volta al giorno per eliminare i batteri che inevitabilmente si accumulano al suo interno», prosegue Carella. «Se mettiamo sulla bilancia l’acquisto di una macchina eccellente, la sua manutenzione, i filtri che consentono di avere un ghiaccio puro, contro l’acquisto di un cubo di ghiaccio certificato da un’azienda che fornisce un’analisi su ogni lotto di produzione, garantisce che sia puro microbiologicamente e realizzato con un’acqua eccellente e lo consegna confezionato, è preferibile quello acquistato, sia in termini economici che di qualità».
Maneggiare con cura
Ultimo tema, ma non meno importante, è legato a come il ghiaccio viene maneggiato. «E non parlo di mani contro pinzette, naturalmente», conclude il mixologist. «Da Carico, il ghiaccio “tecnico” con cui si raffreddano i mixing glass e si shakerano i drink lo conserviamo nella vasca. Quello di finitura, il protagonista all’interno del bicchiere, viene invece stoccato in un congelatore apposito, per evitare contaminazioni dovute al suo scioglimento».
Attenzione dunque a individuare il frigo pieno di cubi di ghiaccio trasparenti all’interno di un cocktail bar, sinonimo di qualità e attenzione al bere bene, diffidando invece dei consigli di personaggi che creano inutili polemiche, ignari dei livelli di eccellenza raggiunti dalla mixology contemporanea.