X PutinIl gran rifiuto di Musk ha allungato la guerra (sulla pelle degli ucraini)

Poche settimane dopo che il miliardario aveva oscurato il segnale Starlink per impedire un attacco ucraino alla flotta russa in Crimea, rivela Anne Applebaum sull’Atlantic, la stessa task force ha colpito nel mar Nero e non c’è stata l’escalation atomica paventata dai russi

Foto di SpaceX su Pexels

La stessa squadra ucraina di cui Elon Musk ha vanificato, nel settembre dell’anno scorso, un attacco alla flotta russa al largo della Crimea, ha ritentato alcune settimane dopo, con un sistema alternativo: ha colpito e non è scoppiata la «guerra nucleare». A sentire la sua biografia, l’imprenditore temeva una «mini Pearl Harbour» e così la Starlink – la costellazione di più di quattromila satelliti nell’orbita bassa del pianeta, vitale per le comunicazioni dell’esercito di Kyjiv, con le linee terrestri danneggiate dai bombardamenti russi – ha oscurato il segnale internet sulla penisola.

Anne Applebaum, firma dell’Atlantic, ha conosciuto in Ucraina gli ingegneri che hanno lavorato al progetto dei droni marini utilizzati nell’operazione fallita. La notte delle ritrosie di Musk, i sistemi avevano perso la connessione: una parte della squadriglia, però, era riuscita a tornare alla base. Il 29 ottobre, la medesima task force ha centrato una fregata russa, la ammiraglio “Makarov”, messa fuori servizio, e ha danneggiato un sottomarino. La missione non aveva il potenziale di distruggere la flotta del Mar Nero, chiariscono i suoi protagonisti alla Applebaum, ma ha avuto comunque un impatto sul conflitto.

Le navi della Federazione sono diventate più caute: invece di attuare un blocco marittimo completo ai danni del Paese, sono rimaste nei porti. «In altre parole, Musk aveva torto – scrive la giornalista sull’Atlantic –. Invece di scatenare la terza guerra mondiale, l’attacco con i droni ha aiutato a ridurre la violenza, protetto i commerci degli agricoltori e quindi forse ha persino evitato di affamare altre persone fuori dall’Ucraina. Se non fosse per la tracotanza di Musk, questi effetti sarebbero potuti essere raggiunti prima».

Dalla flotta russa, infatti, sono partiti anche i missili che non hanno risparmiato obiettivi civili. Il secondo attacco ha cambiato la condotta bellica russa. Oltre a dimostrare l’infondatezza degli spauracchi agitati dal miliardario, che si è fatto abbindolare – non per la prima volta – dagli spettri atomici cari alla propaganda del Cremlino, le settimane di “ritardo” si misurano anche in termini di vittime, tra le file dell’esercito e non, da entrambe le parti, a voler inforcare le chiavi di lettura dei pacifisti a tutti i costi. Insomma, il gran rifiuto di Musk potrebbe aver allungato le ostilità, invece di prevenirle o di accorciarle.

L’episodio fa riflettere sull’immenso potere acquisito da un fornitore privato, la Starlink, in un regime di quasi monopolio sull’internet satellitare. Al punto da decidere se un’operazione militare è lecita: da staccare a suo piacimento la corrente alla controffensiva. Il ceo di Tesla e SpaceX ha finito per influire sulla diplomazia americana, assecondando la «deterrenza» perseguita da Mosca a colpi di minacce. Lo schema ravvisato da Applebaum è lo stesso che ha bloccato l’Occidente dopo l’annessione illegale della Crimea: evitare accuratamente di «provocare» Vladimir Putin, lasciando che fosse il medesimo a dettare le condizioni.

La paura dell’escalation ha rallentato le forniture di armi: di carri armati, caccia e così via, la risposta automatica dei cani da guardia del Cremlino – in testa Dmitrij Medvedev, di cui i giornali italiani riportano ogni post su Telegram manco fosse la Ferragni – era prospettare l’uso della forza: l’atomica. Ma anche gli attacchi ucraini, fa notare l’Atlantic, sono una forma di deterrenza e di autodifesa. Qualche giorno fa, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha eluso le domande della Cnn sull’episodio. «Sembra che la Starlink sia così importante che il governo americano non vuole rischiare di offendere un miliardario capriccioso», per dirla con il giornalista che lo stava intervistando.

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