Altro che NeetI Paesi europei in cui i giovani trovano facilmente lavoro e vengono pagati bene

Lo studio “Insieme per un futuro sostenibile: giovani e lavoro” di Gi Group e Fondazione Gi Group confronta la situazione italiana con altri sette Stati. Nei Paesi Bassi, in oltre il quarantaquattro per cento dei casi i contratti a termine si trasformano in rapporti a tempo indeterminato entro tre anni. I più soddisfatti in Svezia, dove l’inverno demografico non esiste

(Unsplash)

Paese che vai, giovani che trovi. E a guardarli dall’Italia, i coetanei olandesi, svedesi o tedeschi appaiono molto, molto lontani. I ragazzi italiani tra i quindici e i trentaquattro anni non solo sono sempre di meno, ma quasi il ventuno per cento di loro finisce pure nel baratro dei Neet. Chi invece trova un’occupazione spesso si barcamena tra contratti a singhiozzo, infinite promesse di stabilizzazione e stipendi ben lontani da quelli che avevano i genitori alla loro stessa età. Ma non è così ovunque. Come dimostra lo studio “Insieme per un futuro sostenibile: giovani e lavoro” di Gi Group e Fondazione Gi Group, curato da Gabriele Ballarino, Francesco Giubileo, Marco Leonardi, Alessandro Rosina e Francesco Seghezzi, e coordinato da Rossella Riccò di Odm Consulting.

La ricerca ha mappato la condizione dei giovani in sette Paesi rappresentativi del settanta per cento del Pil dell’Europa – Francia, Germania, Italia, Olanda, Polonia, Spagna, Svezia – più il Regno Unito. Per ogni Paese è stata analizzata la situazione demografica, il rapporto tra scuola e lavoro, la percentuale di Neet e il mercato del lavoro. E l’Italia, insieme a Spagna e Polonia, è quella che finisce sempre sul fondo della classifica.

Italia e Spagna sono quelli in cui la situazione dei giovani appare più critica, con un significativo processo di “degiovanimento”, elevati tassi di abbandono scolastico, limitati programmi educativi collegati al mondo del lavoro, percentuali più alte di Neet di lungo termine, minori tassi di occupazione giovanile. In Italia e Spagna si riscontrano anche i più alti livelli di lavoro nero (peggio solo la Polonia), insieme a un’elevata diffusione di part-time involontario, contratti a termine che non vengono stabilizzati, salari bassi e una percentuale più elevata di lavoratori dipendenti a rischio di povertà. Non sorprende quindi che i giovani italiani siano i meno soddisfatti della loro situazione lavorativa e finanziaria e che tendano a rimanere nella famiglia di origine molto più a lungo dei loro coetanei europei. O, in alternativa, a emigrare all’estero.

Gran parte della situazione giovanile ha a che fare con i sistemi educativi. Non a caso, Regno Unito, Svezia e Paesi Bassi spendono di più nell’istruzione superiore e hanno una ridotta incidenza di giovani che non studiano e non lavorano. In particolare, Paesi Bassi e Svezia sono quelli in cui vi sono meno Neet tra i quindici e i rtentaquattro anni (5,4 per cento e 5,8 per cento), quelli con i più alti livelli di occupazione – 88,3 per cento e 86,1 per cento contro il 71,1 per cento italiano – e i più bassi livelli di inattività nella fascia 30-34 anni. Sui tassi di inattività giovanile incide anche la formazione professionale: Germania e Paesi Bassi ottengono i migliori risultati in termini di transizione scuola-lavoro e hanno il minor numero di Neet nella fascia d’età 18-24 anni.

Ma nonostante in Italia la percentuale dei giovani con un diploma professionale non sia molto dissimile a quella dei Paesi Bassi, il problema è che da noi – come in Francia e in Polonia – la formazione professionale avviene nelle scuole, senza il sostanziale coinvolgimento delle aziende. Il che porta all’ampio disallineamento con le competenze richieste poi dalle imprese. Conta anche l’estrema centralizzazione del nostro sistema scolastico, che lo rende statico non favorendo l’innovazione nei programmi e la contaminazione con le aziende. I Paesi con sistemi meno centralizzati sono, invece, anche quelli con un più alto tasso di occupazione e una minore presenza dei Neet. È il caso di nuovo dei Paesi Bassi, così come dell’Inghilterra, dove due decisioni su tre in materia educativa sono in capo alle scuole, e della Svezia, che da un sistema centralizzato a partire dagli anni Novanta ha avviato il passaggio a uno decentralizzato.

Questi fattori si ripercuotono poi a cascata sul mercato del lavoro. E in molti Paesi sottoscrivere un contratti a termine non significa incamminarsi in un lungo percorso di precarietà. Il caso virtuoso sono ancora una volta i Paesi Bassi, che vantano il più alto tasso di occupazione giovanile e i più bassi tassi di inattività giovanile, Neet e rischio di povertà lavorativa. E questo accade nonostante siano il Paese con la più alta percentuale di contratti a tempo determinato. Ma, a differenza di altri paesi, in oltre il quarantaquattro per cento dei casi questi rapporti di lavoro si trasformano in contratti a tempo indeterminato entro tre anni.

In Svezia e nei Paesi Bassi i giovani al di sotto dei trent’anni hanno un salario orario più elevato. Non a caso, sono quelli che esprimono i più alti livelli di soddisfazione lavorativa, anche grazie a solide politiche familiari e a una cultura che promuove l’indipendenza dei giovani dalla loro famiglia di origine fin dalla giovane età.

La Svezia, in particolare, rappresenta un modello anche dal punto di vista demografico. Mentre nel resto del mondo occidentale la popolazione diminuisce, ancora oggi nel Paese scandinavo il numero assoluto di persone nella forza lavoro continua ad aumentare. Il «miracolo svedese» è il risultato della combinazione di un tasso di fecondità non sceso troppo sotto i due figli per donna e un flusso migratorio che ha rafforzato le coorti di persone in età lavorativa. Inoltre, la Svezia, anche se ha una longevità simile a quella dell’Italia e della Spagna, investe nel facilitare la ricerca di autonomia dei giovani anche riducendo le disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro.

Interessante è anche il caso della Germania, un esempio positivo di evoluzione da una situazione critica, simile a quella italiana, a una situazione virtuosa, come in Svezia. Fino al 2005/06, la Germania si trovava con una natalità su livelli molto bassi, cosa che ha indotto il governo tedesco a cambiare paradigma nelle politiche familiari e ad attuare politiche di immigrazione basate sul modello svedese, incoraggiando, da un lato, la genitorialità e la conciliazione vita-lavoro e, dall’altro, l’integrazione degli stranieri. Un approccio che ha generato impatti positivi sulla forza lavoro, sull’aumento del numero di donne in età riproduttiva, sulla formazione di nuove famiglie da parte degli immigrati e sull’aumento del tasso di natalità del Paese, portando il tasso di fertilità tedesco sopra la media europea.

Svezia e Paesi Bassi vantano la più alta percentuale di giovani 15-34 sulla popolazione totale (25,2 per cento) mentre in Germania, con il 22,8 per cento, si attesta sui livelli medi europei.

Allora, forse non è un caso che molti dei giovani italiani, dopo aver studiato, poi finiscano per emigrare soprattutto in questi Paesi, dove possono vivere e lavorare meglio. Per evitare questa fuga che impoverirebbe ancora di più il Paese, ci sono almeno tre grandi linee d’azione su cui si potrebbe investire di più, spiega Stefano Colli-Lanzi, ceo di Gi Group: «Rafforzare la specificità professionale dei percorsi educativi, con un vero sistema duale o percorsi professionalizzanti costruiti insieme alle aziende, decentrare il nostro sistema scolastico, dando alle scuole maggiori autonomie nella costruzione dei percorsi, adottare un approccio innovativo ai percorsi di orientamento».

X