Hanno fatto tremare l’Europa, a risfogliare le copertine di questi anni. Matteo e Marine. Li hanno derisi, temuti: sottovalutati o forse sopravvalutati, in base alla fase. Ora non aspirano più a uscire dall’Ue: la Lega vuole ribaltare il derby di governo da qui alle elezioni europee, Le Pen punta l’Eliseo, passando dalle salamelle tra i tavoli di Pontida. Gli alleati italiani, rispetto all’exploit condiviso con i francesi nel 2019, sono calati nei sondaggi, i gruppi all’Europarlamento si fanno e disfano, l’amicizia è un’altra cosa. Si spiega (anche) così l’alleanza tra Lega e Rassemblement National, diventata organica nel 2015. Questa è la sua storia.
Faragexit
Ci è voluto un anno per costruirla dopo il voto del 2014. «Dobbiamo “ringraziare” Nigel Farage che, mal consigliato, pensava che la Lega non avrebbe eletto europarlamentari. Ci mise in un angolo per prendere i grillini», spiega Marco Campomenosi, oggi capodelegazione leghista, a Strasburgo dal 2004. Il partito è «al 3,9 periodico» nelle rilevazioni. Nel passato ha animato un effimero gruppo «tecnico» di indipendenti, con anche i Radicali, prima di accasarsi con lo Ukip britannico. Quando Farage sceglie il Movimento di Beppe Grillo per la sua creatura consacrata alla «democrazia diretta», Efdd, la Lega si trova tra i «non iscritti».
Come Le Pen. Quello che all’epoca si chiama ancora Front National ha appena moltiplicato i suoi seggi, da tre a una ventina. Secondo Campomenosi, per la nascita della nuova famiglia, l’Europa delle nazioni e della libertà (Enf), è decisivo il fatto che i leader dei contraenti fossero tutti, in quel momento, eletti al Parlamento europeo. Tra di loro, l’olandese Geert Wilders e due vecchie conoscenze, con cui la Lega aveva rapporti fin dai tempi di Umberto Bossi, l’Fpö austriaco e i belgi di Vlaams Belang. Con uno staff più ristretto, sono “costretti” a lavorare a stretto contatto.
«Matteo Salvini e Marine Le Pen, per più di un anno, erano d’accordo sul non voler creare un gruppo a qualsiasi costo», ricorda Thibaut François, eletto nel 2022 all’Assemblée nationale. A quei tempi segue la «migrazione» di staff verso Le Pen. L’esperimento funzionerà, ma per François c’è un altro crinale su cui si dividono le strade con i britannici. «La scelta di Farage era anche politica: la Brexit era fuori dal nostro orizzonte politico». A Salvini la remuntada, in quella tornata, era riuscita cavalcando toni euroscettici. A giugno 2015 i sovranisti europei hanno una casa.
Chi fermerà la marea?
Il termine «sovranismo» entra nei vocabolari delle redazioni e nei titoli, aiutato da due cataclismi. Nel 2016 prima la Brexit, “capolavoro” del già citato Farage, poi la vittoria a sorpresa di Donald Trump in America sono un trauma per i media, che non li avevano previsti (con rare eccezioni). La stampa progressista adotta un registro dove la metafora più ricorrente è burrascosa: l’onda, la marea euroscettica travolgeranno anche le istituzioni europee? Già nel 2014 Salvini era stato invitato al congresso di Lione dei frontisti, di cui incassa la simpatia. Scambi d’amorosi tweet con Le Pen.
Il 28 gennaio 2016 lo stato maggiore di Enf si riunisce a Milano. Tra le foto di quel giorno, un abbraccio sul palco. Il capoluogo lombardo ritornerà nel tentativo di federare le sigle identitarie: la trazione di quello sforzo, a posteriori, è soprattutto italo-francese. Il selfie di gruppo arriva a Coblenza, l’anno successivo. Il clima è cambiato: euforico. «Il successo di Trump ha aperto una strada là dove c’era un vicolo cieco», dice in quell’occasione Frauke Petry di Alternative für Deutschland. Salvini critica «i finti leader o movimenti anti-sistema», una stoccata ai Cinquestelle (con cui di lì a poco si alleerà).
Nel 2018 Le Pen festeggia come «una nuova tappa del risveglio dei popoli» il 17,36 per cento capitalizzato dal «Capitano» alle urne. Celebrerà anche la fumata bianca del governo gialloverde, il primo orgogliosamente populista dell’Eurozona. Lo Spectator ritrae Salvini con la clava contrapposto a un Emmanuel Macron in laticlavio. Didascalia: «La battaglia per il continente». Nel 2019 sul palco di Piazza Duomo undici leader, tra cui ovviamente Le Pen, preparano la spallata. Il padrone di casa, brandendo un rosario, si affida «al cuore immacolato di Maria».
Au revoir populismo
Alle europee il Carroccio sbanca, con il trentaquattro per cento. Il Rassemblement National arriva primo in Francia, al ventitré per cento, stacca di un punto i liberali di Macron. In tempi polarizzati, nel voto comunitario le forze euroscettiche non giocano in trasferta. Il contrario. La stagione incendiaria, però, verrà archiviata. «Il populismo è un luogo sicuro dove fare il pieno di voti, ma magari senza avere incarichi di governo – riflette Campomenosi –. I cittadini poi non si accontentano solo della denuncia delle problematiche, ma cominciano a chiedere “e quindi se fossi tu al governo cosa faresti?” Allora si passa a una fase più costruttiva».
La Frexit, o l’Italexit, non sono più parole d’ordine. Slogan rottamati, chiariscono gli esponenti di Identità e democrazia (Id), il cartello subentrato nel 2019 a Enf. «È un po’ di tempo che non c’è questa richiesta, la situazione attuale richiede senso di responsabilità», dice Campomenosi. «Abbiamo registrato il messaggio dei francesi, che poi è lo stesso degli italiani – aggiunge François –. Pensiamo serva una politica diversa, ma riconosciamo vada fatto all’interno dell’Ue e della cooperazione europea perché è quello che vuole la gente».
Alessio Vernetti, analista di YouTrend, chiama questo riposizionamento «annacquamento del populismo». È innanzitutto una «capacità di adattamento», con un «euroscetticismo più blando di qualche anno fa». Spesso coincide, appunto, con una parentesi al potere. Non solo a destra: è stato così anche per Podemos (confluito oggi in Sumar), che nel 2019 si è apparentato con il socialista Pedro Sánchez, nel primo governo di coalizione della Spagna.
C’è un vecchio manifesto, periodicamente ripescato, in cui si legge: Le Pen? «È fascista e razzista. Come i partiti di Roma». Firmato: Lega Lombarda. Archeologia. Oltre al rebranding, il Front National ha allontanato «dolorosamente» il padre fondatore, mentre la figlia si spendeva per una normalizzazione del partito, che ha assunto professionisti e allargato la base. Anche i lumbard hanno messo in soffitta la mitologia della Padania. Non a caso, la fissa del Salvini cantieristico è il ponte su uno stretto che, nel 1988, il suo partito avrebbe considerato fuori dalla propria giurisdizione, perché nel Meridione – in quella narrativa – «vorace di denari nordici».
Le «due gambe» di Marine
La sintonia ideologica c’è. «I due elettorati, in realtà, non sono completamente sovrapponibili», fa notare Vernetti. «Alle ultime presidenziali la fascia d’età in cui Le Pen era andata peggio è quella degli over settanta, cioè degli anziani. Al contrario, in Italia, le politiche del 25 settembre di un anno fa ci mostrano che per la Lega in realtà il consenso aumenta all’aumentare dell’età». È una differenza anagrafica. Un’altra la si può riscontrare nelle cifre, nei grafici delle intenzioni di voto e delle performance alle urne: in Italia la volatilità è maggiore.
Per Vernetti è anche una questione di assetto istituzionale. François è d’accordo: «Il sistema presidenziale esclude le alleanze e questo plasma la struttura dei partiti: per esempio quello di Nicolas Sarkozy era molto forte quando lui era presidente». Un pezzo dei voti della Lega ha traslocato, all’interno dello stesso schieramento, verso Fratelli d’Italia. Rispetto alla «ruspa», Marine Le Pen ha impostato, fin dagli inizi, il suo messaggio su «due gambe»: l’immigrazione e l’economia, con la prima interpretata come «una variabile di aggiustamento del mercato del lavoro» (Fondazione Feltrinelli).
La destra radicale ha così intercettato gli operai. Gli avversari l’hanno accusata di una visione anti-capitalista. «Siamo sociali, non socialisti – risponde François –. Diciamo sempre che i cittadini hanno due paure: una è la fine della Francia, cioè della civiltà, l’altra è la fine del mese». Su questo binomio si fonda l’ascesa, oltre il voto di protesta. È per questo che nel 2017, in vista del secondo turno, Le Pen ha potuto corteggiato la base gauchista di Jean-Luc Mélenchon, riprovandoci nel 2022. Il 2027 sarà la volta buona, sono convinti nel suo inner circle.
Che futuro si vede da Pontida
Prima, però, si rimette in moto la giostra in ventisette Paesi, con gli election days, dal 6 al 9 giugno 2024. Id ritiene quella uscente una «legislatura sprecata», i suoi deputati hanno scontato un «cordone sanitario», cioè un’esclusione, da parte degli altri gruppi. Le chances di una svolta a destra, con una maggioranza alternativa a quella attuale tra Ppe, Socialisti e Renew, sembrano raffreddarsi. «Mancano diversi mesi, ma guardando le proiezioni del Parlamento europeo mi pare difficile che si riesca a smontare questa coalizione», conclude Vernetti di YouTrend.
François, invece, ritiene sia «molto probabile». Conta che la sua, dopo l’aumento dei seggi francesi nella plenaria a ottantuno, possa essere la delegazione più numerosa del prossimo Europarlamento (lo stesso scenario era stato evocato per Fratelli d’Italia). «Da noi saranno considerate elezioni di metà mandato, sull’operato di Macron e sulla sua riforma delle pensioni», dice il deputato, che ricorda come l’investitura di Ursula von der Leyen sia avvenuta per un pugno di voti (nove, dei pentastellati peraltro). Anche Campomenosi punta «quella poca percentuale di crescita che ci permetterebbe, insieme al Ppe e ai Conservatori, di avere un’alternativa di centrodestra al Parlamento europeo».
Ma i diretti interessati, conclude il capodelegazione leghista, «a detta di alcuni loro esponenti, Manfred Weber in testa, non sembrano interessati: chi pone oggi dei pregiudizi su Le Pen, di fatto, è come se dicesse semplicemente che vuole continuare a governare l’Europa insieme ai Verdi e ai Socialisti». Matteo e Marine sono diversi. Nel 2015 era prevedibile il pratone di Pontida? «Alcuni giornalisti, qui, hanno chiesto a Le Pen perché ci andasse – racconta François –, dal momento che Salvini non era più forte nei sondaggi, e lei ha replicato: perché è un alleato di vecchia data, perché è un amico».