La cosa terribileIl talento di Matthew Perry, e la sua incapacità di vivere

È una consolazione minuscola ma importante esserci accorti mentre era ancora in vita che l’attore di Friends era molto bravo, anche come scrittore

LaPresse

C’è un momento, in “Friends, amanti e la Cosa Terribile”, in cui Matthew Perry racconta di quando s’è reso conto che no, il mondo non ce l’aveva con lui: il mondo di lui se ne fotteva. Il mondo inteso come universo, come una qualche divinità, come qualunque destino fosse quello per cui doveva soffrire.

Il mondo inteso come esseri umani, noialtri, Matthew Perry credevamo di conoscerlo, credevamo fosse uno di casa, e ora crediamo che ci sia morto un amico. Uno che, finché l’anno scorso non ha scritto un’autobiografia, neppure avevamo idea di quanto fosse stato male – ma è il secolo in cui pensiamo d’essere amici della gente che accende il telefono per farci vedere la stanza d’albergo in cui dorme a scrocco, figurati se non è normale che ci pensassimo amici di gente che ci entrava in casa una volta a settimana.

Lui, nel libro, guardava le stagioni di “Friends” e diagnosticava le sue dipendenze, qui sono grasso ed è alcol, qui sono magro e sono anfetamine, e noialtri capivamo una volta di più che non c’è come illudersi di conoscere la gente che non conosciamo per sbagliarsi: chi l’avrebbe detto che dietro quelle risate registrate c’era l’inferno (erano anche anni di minor dietro le quinte perpetuo: leggevamo un articolo ogni tanto, sulle vite dei famosi, mica il minuto per minuto delle loro cartelle cliniche).

«Devi diventare famoso, per sapere che diventare famoso non è la risposta», dice Perry a un altro punto di quel libro favoloso del quale non ripeterò il titolo italiano perché mi fa venire l’insonnia che La nave di Teseo non abbia messo la virgola dopo «amanti» (sarebbe stato brutto lo stesso, essendosi perso il gioco tra amici e “Friends”, ma almeno non sarebbe stato sgrammaticato: scusali, Matthew).

Dovevi diventare famoso negli anni in cui non lo eravamo tutti, intendeva, perché la fama di Matthew Perry, nato nel 1969, era come la fama di Joan Collins, nata nel 1933: non c’entrava niente con la celebrità come la intendiamo oggi. Oggi che siamo appunto tutti famosi, oggi che i numeri non vogliono dire più niente e se chiudono un podcast i quattro affezionati protestano convinti d’esser quattro milioni, e i produttori mica possono dire «non lo ascoltava nessuno, come quasi tutto ciò che facciamo», oggi che le decine di milioni di spettatori della tv di fine Novecento non esistono più.

Due settimane fa sono andata a teatro a vedere Joan Collins che raccontava la sua vita, e prima di quel pomeriggio non mi ero mai resa conto della sua carriera. Joan Collins ha iniziato a lavorare all’inizio degli anni Cinquanta, ha condiviso film con chiunque, da Paul Newman in giù, eppure la ragione per cui nel 2023 riempie un teatro londinese è che tra il 1981 e il 1989 è stata Alexis Carrington in “Dynasty”: la potenza con cui hanno fatto parte delle nostre vite coloro che ci entravano una volta a settimana quando guardavamo tutti la stessa cosa alla stessa ora seduti su divani analoghi, quella roba lì chi è famoso nel nostro cellulare se la sogna.

Ma forse bisogna parlare di attori. L’altro giorno guardavo la canissima performance d’una persona che m’è simpatica, e osservavo che gli attori sono forse gli unici che non m’importa sappiano fare il loro lavoro. Volete dirmi che voi invece stimate meno qualcuno perché non sa fare in maniera convincente un lavoro che consiste nel fare le facce? Dai, su.

Sabato notte, quando mi sono svegliata a un’ora che non sapevo più che ora fosse per colpa dell’ora solare, e ho preso il telefono e ho scoperto che era morto Matthew Perry, ho visto anche un pezzetto di Judi Dench al miglior talk show del mondo.

Judi Dench spero di non dovervi spiegare chi sia, il miglior programma di interviste del mondo è quello di Graham Norton, al quale l’ottantottenne Dench è andata a piazzare il proprio libro, che è una conversazione su Shakespeare nella quale Dench è più brava di me a spiegare i limiti del proprio mestiere. Come s’interpreta Titania nel “Sogno di una notte di mezzanotte”, chiede quello con cui parla, e Dench dice che non si fa: si lascia che il testo faccia il lavoro per te, e si spera d’avere la faccia giusta.

In tv, Norton le chiede di fare il juke-box di Shakespeare: facci uno Shakespeare, uno qualunque. Judi Dench chiede se vada bene un sonetto, e io tremo. Un sonetto sono quattordici versi (annuite come se l’aveste sempre saputo), e quattordici versi sono molto più dell’attenzione che è capace d’avere il pubblico d’oggi per una cosa che non cada nelle categorie dolenza esistenziale o aneddoto buffo (nella stessa puntata, Arnold Schwarzenegger raccontava che l’insegnante incaricato di togliere l’accento austriaco al suo inglese era morto, e quindi non poteva chiedergli i soldi indietro).

E invece Judi Dench recita un intero sonetto – il 29, che se siete shakespearologi obietterete caschi un po’ nella categoria della dolenza esistenziale a lieto fine – e lo studio televisivo ammutolisce incantato, e sì è merito di Shakespeare, ma forse c’entra anche quella cosa lì che sanno fare quelli molto bravi a fare le facce.

Il grande non detto di “Friends”, la sitcom più famosa tra quelle di cui siamo stati coevi, è che era scritta malissimo. È che veniva salvata da quelli che facevano le facce. E, di quelli che facevano le facce, il più bravo era indubbiamente Matthew Perry.

Sono contenta che abbia fatto in tempo a scrivere quel libro, e a farci scoprire che era anche uno scrittore, e un essere umano interessante (cosa che gli attori sono raramente: alle persone interessanti viene in mente di guadagnarsi da vivere facendo le facce solo in presenza d’un consistente disturbo mentale, e questo vale nei secoli, da Vittorio Gassman a Matthew Perry).

Non poteva che finire così, con una morte del cazzo e i giornali americani che possono dire che era destino perché è morto affogato e nella sua ultima foto su Instagram era in un idromassaggio (una vita a pensare che il guaio fossero i romanzi in cui l’infanzia era destino, solo perché non avevo ancora visto le cronache in cui le tue pagine social sono destino).

Non poteva che finire così, chiunque abbia letto quel libro lo sa, perché non si vive una vita in cui si muore così tanto, così spesso, si è così vivi-per-miracolo ma sul serio, non come le tiktoker che cercano di farsi compatire spacciando per «ci è mancato poco» una sbucciatura al ginocchio, non si vive quella vita lì per poi morire sereni a novant’anni.

Nella sua autobiografia, Perry raccontava cose atroci che non siamo più abituati a leggere, perché per la fama di oggi basta appunto il ginocchio sbucciato, perché chiunque abbia un io narrante ci tiene a fargli fare bella figura, mica a raccontare che si rompeva il sacchetto della colostomia e si svegliava coperto di merda. Perry raccontava la sua incapacità di vivere, l’anno scorso, con lo stesso vigore e lo stesso esito con cui, trent’anni fa, salvava le puntate d’una sitcom scritta male facendola sembrare un capolavoro.

Sono contenta d’essermi presa il disturbo di leggere quel libro e d’aver pensato che fosse il libro dell’anno, perché è insopportabile il Grande Indifferenziato con cui quando muoiono diventano tutti il più bravo. È una consolazione minuscola ma importante, sapere che dell’essere Matthew Perry il più bravo ci eravamo tutti accorti già da vivo. Importante, certo, solo per noi, che abbiamo il lusso d’esserlo ancora, vivi.

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