I colleghi gli si sono stretti attorno, in uno sfoggio di unità. Come se non fossero arrivati al suo nome – Mike Johnson, cinquantuno anni, dalla Louisiana – avendo esaurito le alternative. Come se questo stillicidio, durato ventidue giorni, non avesse esposto una volta di più che quella trumpiana non è una neoplasia, ma un’emisfero di questo Partito Repubblicano. Di lui, che è il nuovo speaker della Camera, al di fuori degli Stati Uniti si sapeva poco, ma nei titoli dei giornali americani la sua principale qualifica è essersi distinto negli sforzi di Donald Trump di sovvertire l’esito delle presidenziali del 2020.
Era stata l’ala destra a impallinare a inizio ottobre il predecessore, Kevin McCarthy. Otto ribelli. Una sfiducia che non aveva precedenti nella Storia americana. Ed è stata la destra ideologica, ortodossa sui temi economici ma radicale su tutto il resto, a bruciare tre figure più in vista se lo scrutinio non era segreto. Jim Jordan, Steve Scalise, Tom Emmer erano tutti graduati del Gop. Nessuno di loro è riuscito a intercettare i duecentodiciassette voti necessari. Dopo la fase a porte chiuse, in aula Johnson ne ha presi duecentoventi. Ha tributato un omaggio a McCarthy: «È la ragione per cui siamo in questa maggioranza».
Ma chi è Johnson? È al quarto mandato, è approdato al Congresso a gennaio 2017, con l’endorsement dell’House Freedom Caucus, un centro di potere ultraconservatore, ma non è entrato nel loro gruppo. Come Jordan, ha invece presieduto il Republican Study Committee, la fazione più folta a Capitol Hill. Ha fatto parte della difesa di Trump ai tempi dell’impeachment ed è stato tra i registi occulti del tentativo paralegale di rovesciare le presidenziali. È tra i centoquarantasette repubblicani che hanno votato per cercare di bloccare la convalida dei risultati. Nel dicembre 2020, Johnson ha raccolto firme per un ricorso (bocciato) in Texas e altri quattro Stati in cui aveva vinto (lecitamente) Joe Biden.
Ha condannato l’assalto al Congresso, ma principalmente perché la violenza ha a suo avviso eclissato le ragioni di lui e degli altri cospirazionisti con il colletto bianco. C’è un video di quel 6 gennaio in cui la sua voce, ingolfata dalla mascherina, dice che lo scrutinio dell’Arizona è «non valido» e «incostituzionale». In aula Johnson, riporta Axios, ha votato quasi sempre in linea con il suo gruppo. Nel suo discorso di insediamento ha ottenuto una standing ovation citando Israele, «il nostro principale alleato in Medio Oriente», chiarendo: «Dimostreremo non solo a loro, ma all’intero mondo che la barbarie di Hamas è miserabile e sbagliata, e noi staremo con i buoni in quel conflitto».
Presto dovrà misurarsi con priorità che sono costate a McCarthy il posto. Su tutte, il sostegno all’Ucraina. In passato, sul punto, è stato su posizioni scettiche, assecondando alcuni sondaggi: il nuovo speaker è tra i cinquantasette repubblicani che a maggio hanno votato contro il pacchetto di aiuti da 39,8 miliardi di dollari. E, prima ancora, aveva twittato per dire che «i contribuenti americani meritano di sapere se il governo ucraino è totalmente trasparente sull’uso di queste somme gigantesche», implicitamente lasciando intendere che Kyjiv avesse problemi di corruzione. Ora toccherà allo stanziamento da centocinque miliardi chiesto dall’amministrazione che accorpa quei fondi con l’assistenza a Israele, sbandierata all’esordio.
«Johnson è uno dei parlamentari più junior a diventare speaker da decenni, potrebbe essere anche uno dei più conservatori», scrive l’Atlantic. Cristiano evangelico, ha un podcast con la moglie. È un fan delle politiche omofobe di Ron DeSantis in Florida e ha festeggiato quando la Corte suprema ha picconato il diritto all’aborto, rovesciando la sentenza “Roe vs. Wade”, un «giorno straordinario nella Storia americana» e intanto su Fox News gongolava. Ha beneficiato del veto di Trump su Emmer, candidato prima di lui al ruolo di speaker della Camera, a cui sono stati fatali l’essere favorevole ai matrimoni gay e lo stigma di «Rino», cioè repubblicano solo nel nome (Republican In Name Only), e per giunta «globalista», piovutogli addosso dall’ex presidente mentre cercava di raggranellare voti.
Convergendo più o meno volentieri sul nome di Johnson, il Gop ha fermato la giostra. Uno dei congiurati, se non il loro capo, delle idi di ottobre, Matt Gaetz della Florida, ha letto come un successo la nomina: «Se non pensate che passare da McCarthy al MAGA Mike Johnson mostri l’ascesa di questo movimento e dove sta davvero il potere dentro il Partito Repubblicano, allora non siete stati attenti», ai microfoni di Steve Bannon. Sembra un flashback di una stagione incendiaria che potrebbe tornare. Nel 2017 Johnson ha ricevuto da Scalise, all’epoca suo mentore, un solo consiglio: «Stai attento alle tue prime alleanze, evita di restare etichettato o marginalizzato». Seguendolo, sei anni dopo, a Johnson è riuscita una scalata quasi incomprensibile. Anzi no: perché non sia inspiegabile basta mettere a fuoco cos’è successo al partito nel frattempo.