La quattordicesima edizione di Cheese – evento internazionale dedicato ai formaggi a latte crudo – ha voluto enfatizzare come le proprietà organolettiche e nutrizionali del latte, e di conseguenza dei caci, siano fortemente correlate all’alimentazione degli animali. E quando la dieta si fonda sui “prati stabili”, la complessità aromatica del prodotto finale può solo trarre beneficio dalle decine di specie che popolano questi ecosistemi ricchi di biodiversità. Una complessità destinata a scemare man mano che aumenta la quota di mangimi. Ma se i prati influenzano la qualità nella sua accezione edonistica, oltre che salutare, la degustazione non dovrebbe essere in grado di cogliere le differenze? Dopo tutto, un consumatore che non riesce a distinguere il prodotto migliore tenderà (molto probabilmente) a scegliere quello più conveniente, anche se non è sano e non fa bene all’ambiente.
Il messaggio del prato però è chiaro, bisogna solo saperlo interpretare. Ed è per questo che l’Associazione Nazionale Formaggi Sotto il Cielo (Anfosc) propone un approccio alternativo all’analisi sensoriale, che supera la finalità meramente descrittiva per aiutare il casaro a organizzare la filiera in modo da perseguire un determinato target qualitativo. Proprio come le analisi del sangue non servono solo a valutare lo stato di salute ma anche a risolvere eventuali problematiche, o fornire indicazioni utili a migliorare il proprio stile di vita.
Il nuovo paradigma formulato da Anfosc non prende in considerazione la struttura del formaggio, perché essendo subordinata alla tecnica è sensibile agli errori del casaro (facilmente identificabili da un consumatore minimamente avveduto). Sono invece colore, odore e gusto a far pendere l’ago della bilancia. E la relazione tra questi fattori non è sempre lineare quando si parla di animali al pascolo, perché la qualità dell’erba è mutevole, e dunque incide in maniera diversa su queste caratteristiche.
Le tonalità cromatiche, ad esempio, sono legate alla presenza dei carotenoidi e dei flavonoidi che difendono le piante dai raggi ultravioletti; generalmente un latte più “colorato” denota una maggiore concentrazione di queste molecole, che passando dall’erba al rumine influenzano anche l’odore e (meno) il sapore del prodotto finale.
Un latte bianco proviene da animali che si cibano principalmente di mangimi; al contrario, se è l’erba a prevalere, i formaggi ottenuti dal latte di mucca tenderanno al giallo (grazie al beta-carotene) mentre quelli ottenuti dal latte di pecora assumeranno una sfumatura verdognola (dovuta alla luteina). Al contrario, il latte di capra e quello di bufala sono tipicamente bianchi, sebbene qui sia assente solo il beta-carotene: questa peculiarità non è poi così sorprendente dal momento che la razione tipo di questi animali è costituita da fieni scadenti e notevoli quantità di mangimi.
L’odore, come il colore, è condizionato dalla presenza di specifiche molecole, “volatili” ma al contempo vincolate alla zavorra di proteine e glucidi. Se per aprire il ventaglio aromatico del vino è necessario roteare i calici, il formaggio deve essere spezzato. Ma la romantica fragranza di fieno, latte o burro che inebria i nasi più sensibili non porta un gran valore aggiunto ai fini della misurazione qualitativa.
Nel metodo Anfosc gli unici parametri realmente significativi su cui focalizzare l’attenzione sono intensità e variabilità. La prima dipende dal numero di molecole contenute nell’erba, che diminuisce all’avanzare dello stadio fisiologico della pianta: un’erba giovane donerà al formaggio un profumo più intenso, mentre un’erba secca si limiterà a conferire un debole sentore di paglia. La variabilità dipende invece dalla diversità di quelle molecole. Dunque, un erbaio con due sole specie foraggere darà origine a un’essenza odorosa monotematica; al contrario, un prato stabile con decine o addirittura centinaia di erbe saprà regalare un bouquet in continua evoluzione, perché il diverso peso delle sostanze volatili fa sì che queste vengano rilasciate in tempi differenti.
Il gusto, più del colore e dell’odore, è legato alla razione alimentare. Ma anche all’“età” dell’erba. Se gli animali nella stalla ricevono nutrimento sempre dalla stessa fonte, il livello qualitativo sarà costante; ma se la fonte cambia – perché cambiano i fieni nel corso nell’anno – si raggiungeranno livelli qualitativi diversi e fortemente dipendenti da quella razione. Gli animali che si cibano di mangimi produrranno un latte diluito, e di conseguenza un formaggio pressoché privo di sapore.
Diversamente, gli animali al pascolo daranno vita a formaggi con un livello qualitativo più alto e soprattutto variabile: nelle fasi iniziali, quando l’erba è giovane, il colore sarà acceso e l’odore buono (grazie all’abbondanza di molecole volatili), anche se il gusto avrà un’intensità modesta (a causa della carenza di polifenoli, principali responsabili del gusto secondo Anfosc); al contrario, quando l’erba è secca, il formaggio sarà quasi bianco e inodore, ma avrà un gusto intenso e persistente (le sostanze volatili in questa fase saranno sparite e i polifenoli raggiungeranno il loro picco).
Anche se la tecnica di produzione del cacio impatta quasi esclusivamente sulla sua struttura, può creare veri e propri “danni” sensoriali: il trattamento termico attenua l’intensità, mentre i fermenti appiattiscono la variabilità. E così anche i formaggi più “colorati” – che quindi lascerebbero presagire una ricca gamma olfattiva e gustativa – spesso deludono, presentandosi nei supermercati sempre uguali a sé stessi e ai loro vicini di scaffale, indipendentemente dal territorio di origine. Uguali tanto nelle (blande) percezioni organolettiche quanto nel prezzo.
Ma se esiste una qualità “oggettiva” – non solo per la scienza, ma anche e soprattutto per il palato del consumatore – è giusto che venga segnalata correttamente, e retribuita in modo equo a tutti gli attori della filiera. Nella speranza che un giorno non troppo lontano potremo scegliere di acquistare e pagare adeguatamente un formaggio etichettato come “da pascolo” o “da stalla”, con o senza mangimi.