Clima tesoIl conflitto a Gaza potrebbe avere un grosso impatto sulla Cop28

La prima conseguenza tangibile è l’annullamento di un accordo tra Israele e Giordania sulle rinnovabili, la cui firma era attesa durante la conferenza. Ci sono poi altri due temi: le implicazioni della guerra sui fondi per il “risarcimento climatico” e un’attenzione mediatica (e politica) in calo dopo l’escalation degli scontri

AP Photo/LaPresse (Ph. Leo Correa)

Esattamente due anni fa, attorno a un tavolo dell’Expo di Dubai, Israele e Giordania hanno firmato il loro primo accordo a lungo termine dopo la sottoscrizione del trattato di pace, nell’ottobre del 1994. La stretta di mano del 2021 è avvenuta tra l’allora ministra dell’Energia israeliana, Karine Elharrar, il ministro giordano per l’Acqua e l’Irrigazione, Muhammad Najjar, e la ministra dell’Ambiente degli Emirati Arabi Uniti, Mariam Al Mheiri, con tanto di patrocinio di John Kerry, inviato per il Clima di Joe Biden. 

Alla base della dichiarazione di intenti c’era la costruzione di un impianto a energia solare da seicento megawatt in Giordania, chiamato Prosperity Green e finanziato da Abu Dhabi, con l’obiettivo di esportare energia pulita in Israele. In cambio, Tel Aviv ha promesso di installare nel Mediterraneo un dissalatore, Prosperity Blue, che avrebbe fornito alla Giordania – Paese particolarmente esposto alla siccità e alle ondate di calore – duecento milioni di metri cubi d’acqua l’anno. 

Israele è uno degli Stati più all’avanguardia nella gestione delle risorse idriche. Le sue tecnologie per il rilevamento delle perdite, usate anche dall’Italia, sono tra le più avanzate. Inoltre, la desalinizzazione fornisce al Paese l’ottanta per cento dell’acqua per uso domestico-municipale e il trenta per cento di quella potabile. 

Dall’altra parte, Israele ha il gas come principale elemento (quaranta per cento) di un mix energetico ancora obsoleto: tra il 2011 e il 2021, i consumi di questo combustibile fossile sono saliti del centoquarantotto per cento, a fronte di una riduzione del cinquantuno per cento del carbone e del quattordici per cento del petrolio. L’impianto fotovoltaico in Giordania avrebbe probabilmente aiutato lo Stato ebraico a raggiungere il “target 2030” del quaranta per cento di elettricità prodotta da fonti rinnovabili. 

Dopo l’escalation del conflitto a Gaza, e il conseguente inasprimento delle relazioni tra Giordania e Israele, i progetti di Prosperity Green e Prosperity Blue sono stati archiviati in via definitiva. L’incontro decisivo per la firma necessaria per avviare i lavori era in programma a Dubai, proprio durante la Cop28 (30 novembre-12 dicembre), ma Amman ha scelto di fare un passo indietro.

«Non firmeremo più questo accordo. Riuscite a immaginare un ministro giordano seduto accanto a un ministro israeliano per firmare un accordo sull’acqua e l’elettricità? Il tutto mentre Israele continua a uccidere bambini a Gaza? Finora abbiamo avuto un dialogo limitato a progetti regionali, ma non andremo avanti», ha detto Ayman Safadi, ministro degli Esteri giordano, durante un’intervista rilasciata ad Al Jazeera il 16 novembre.

L’abbandono del piano «acqua in cambio di energia» – per usare le parole di Robert Habeck, ministro dell’Economia e della Protezione climatica della Germania – è il primo effetto tangibile della guerra a Gaza sulla conferenza dell’Onu sul riscaldamento globale. 

Il clima non è giardinaggio ed è strettamente collegato alla politica internazionale: il contesto geopolitico ha un’impronta marcata sulle politiche verdi dei governi, soprattutto se sul tavolo ci sono argomenti delicati come l’implementazione del fondo Loss and damage (Perdite e danni), dedicato al “risarcimento climatico” dei Paesi più poveri e meno responsabili della crisi ecoclimatica. 

La Cop di quest’anno, presieduta da un petroliere (Sultan Al Jaber) e ospitata da un Paese particolarmente legato ai combustibili fossili, è già a corto di credibilità. Di recente, come se non bastasse, un’inchiesta ha svelato le pessime condizioni degli operai migranti impegnati nei lavori preparatori. A Dubai sono attesi più di settantamila delegati: un numero mai raggiunto finora. 

Prima dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, Israele aveva in programma di accreditare alla Cop28 circa mille delegati. Stando all’agenda preliminare diffusa dagli Emirati Arabi Uniti, potrebbero partecipare il premier Benjamin Netanyahu o il presidente Isaac Herzog, ma da Tel Aviv non sono giunte conferme o smentite. Secondo alcuni report citati dal sito di Deutsche welle (Dw), emittente pubblica tedesca, la “squadra” israeliana presente a Dubai avrà comunque diverse assenze. 

Il più grave impatto degli scontri a Gaza sulla Cop28 potrebbe essere di natura economico-finanziaria. Stando a quanto riportato da Dw, il Fondo monetario internazionale (Fmi) teme che il conflitto – che proseguirà dopo la tregua per il rilascio degli ostaggi – possa togliere una fetta di risorse destinate alla mitigazione e all’adattamento alla crisi climatica. L’Fmi, in particolare, si riferisce ai finanziamenti versati dalle economie più sviluppate nelle casse degli Stati sottosviluppati.

Secondo Kalee Kreider, presidente della società di public affairs Ridgely Walsh, «i conti sugli aiuti esteri andranno ricalcolati perché il numero di risorse destinate al Medio Oriente cambierà l’equazione». In più, laumento dei prezzi del petrolio dovuto agli scontri potrebbe spingere alcuni Paesi a optare per il phase down (riduzione graduale) piuttosto che sul più ambizioso phase out (eliminazione graduale) delle fonti fossili.

Le conseguenze, però, potrebbero rivelarsi meno tangibili e meno prevedibili: «Le Nazioni occidentali devono dimostrare di essere interessate allo sviluppo multilaterale e alla lotta globale contro il cambiamento climatico. Devono credere nel multilateralismo e nelle loro scelte di politica estera», spiega Federico Tassan-Viol, analista Senior Diplomazia del think tank italiano per il clima Ecco, in un’intervista a Dw. 

Concentrati sul conflitto in Medio Oriente e sulle sue implicazioni economiche, diplomatiche ed energetiche, i delegati presenti a Dubai potrebbero essere meno inclini a scendere a compromessi. Questo vale soprattutto per i Paesi del Golfo: oltre a essere coinvolti nella guerra (il Qatar, per esempio, ha svolto un ruolo da mediatore nelle trattative per l’accordo sulla liberazione dei cinquanta ostaggi israeliani), sono delle potenze energetiche molto influenti all’interno dei negoziati per il clima. I leader degli Stati occidentali, scrive invece Politico, «trascorreranno parte del loro tempo diplomaticamente prezioso con i politici del Medio Oriente, discutendo non di clima ma della sicurezza nella regione». 

C’è poi un tema di attenzione mediatica: a partire dall’attacco di Hamas, clima e ambiente sono scivolati in fondo alle homepage dei giornali, e questo potrebbe impattare negativamente sull’esito dei negoziati e sul coinvolgimento della società civile. Va specificato, però, che le trattative sui dettagli tecnici sono iniziate da molti mesi, quindi le sorti del clima globale non si decideranno dal 30 novembre al 12 dicembre. 

«Da un punto di vista tecnico, penso che i lavori preparatori abbiano ormai dato una direzione chiara. L’organismo dell’Onu per il cambiamento climatico non è il Consiglio di sicurezza. Da questo punto di vista, quindi, i delegati non saranno accecati dalla polarizzazione connessa al conflitto a Gaza», prosegue Tassan-Viol. Il percorso, insomma, è tracciato: appuntamento a Dubai per assistere a eventuali (e pericolose) deviazioni. 

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