È la prima volta che l’Italia minaccia il veto su un testo così importante come quello della riforma del Patto di stabilità, avanzato dalla presidenza di turno spagnola. Con l’accordo che si profila tra Germania e Francia, il governo italiano rischia di rimanere con il cerino in mano e di bruciarsi le dita. Con tutto ciò che ne consegue sugli altri tavoli, a cominciare dal giudizio che la Commissione europea dovrà esprimere il 21 novembre sulla manovra di bilancio. Sono questioni separate solo sulla carta, come la ratifica del Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, eppure mai come questa volta tutto si tiene.
Non è un caso che ieri la premier sia intervenuta per assicurare che la manovra è «seria, realistica, che non getta risorse dalla finestra». Ma non è un caso neanche che Christine Lagarde abbia espresso «disagio» per il fatto che non sia stato approvato il nuovo quadro regolatorio: «Dobbiamo sapere con quali parametri i ministri decidono i loro budget», ha detto la presidente della Bce, che ha minacciato altri rialzi dei tassi in caso di nuovi shock economici. Sarebbe una nuova mazzata per i conti italiani.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, all’Ecofin di giovedì, ha fatto due parti in commedia. Da un lato ha ringraziato la Spagna per il contributo al passo in avanti, poi ha fatto circolare una velina velenosa sul possibile veto, appunto, aggiungendo che sarebbe meglio restare col vecchio Patto di stabilità. Quel Patto che la destra italiana ha sempre detestato e considerato come il male assoluto: adesso lo preferirebbe alle nuove regole sulla riduzione del deficit e del debito, perché considerate più onerose da rispettare.
La verità è che la minaccia del veto è un bluff che nasconde prima di tutto l’incapacità di fare una trattativa come si deve, dopodiché è il tentativo di ottenere un voto sufficiente sulla legge di bilancio.
L’Italia comincia a essere osservata con sospetto in Europa. L’iniziale diffidenza della Commissione europea e delle due cancellerie più potenti – Germania e Francia – era scemata a mano a mano che l’arrembante maggioranza sovranista si piegava ai miti consigli delle regole europee sui conti pubblici. Il ministro dell’Economia aveva seguito il solco tracciato da Mario Draghi con la prima manovra finanziaria e si è tenuto prudente con quella in corso d’opera. Una prudenza parziale: potrebbe non essere sufficiente a Bruxelles, che il 21 novembre esprimerà un primo giudizio.
Nel mirino c’è sempre il commissario Paolo Gentiloni, che secondo Giorgia Meloni e Matteo Salvini non farebbe gli interessi degli italiani. Il Commissario all’economia ha invece ricordato ai suoi connazionali al governo le due raccomandazioni per una valutazione positiva da parte dell’Unione euroepa: preservare gli investimenti e cautela sulla spesa corrente. Sotto la lente di ingrandimento da parte della Commissione, oltre all’extra-deficit autorizzato dal Parlamento (23,5 miliardi nel triennio 2023-2025; 15,7 miliardi nel 2024), ci sono le misure sulle pensioni, con la reintroduzione, parzialmente corretta, di Quota 103. Poco credibile inoltre la spending review, che dovrebbe gravare per 2,5 miliardi sui ministeri nel triennio e per seicento milioni l’anno su enti locali e regioni. Tagli alla spesa dunque incerti per le coperture, mentre il resto – circa sedici miliardi – è tutto nuovo debito.
Ci sta questo dietro la minaccia del veto: la paura di una bocciatura anche parziale della manovra finanziaria da parte di Bruxelles, che non crede neanche alle previsioni di crescita fatte dal governo italiano. Il governo infatti è in ritardo – lo dice adesso anche la Corte dei Conti – sui tempi di spesa dei progetti del Pnrr, che dovrebbe essere il volano della crescita economica.
Ma la premier si illude che la minaccia possa sortire l’effetto desiderato. E illude gli italiani affermando che il premierato sia la bacchetta magica per colmare i ritardi infrastrutturali, il divario nord-sud, lo scarso protagonismo internazionale, la difficoltà nel difendere gli interessi nazionali. È andata a dirlo all’assemblea nazionale degli artigiani e dei piccoli imprenditori, la sua base elettorale di riferimento. Dimenticando di aggiungere che ha già una vasta maggioranza alle spalle, sufficiente per fare le cose che servono, e un’opposizione non preoccupante. E omettendo inoltre che tra gli esempi che lei stessa ha fatto c’è quella Germania dove il Cancelliere non viene eletto direttamente dal popolo. Un modello che potremmo importare, con il doppio effetto di non doverci inventare premierati da sperimentare sulla nostra pelle e di coinvolgere l’opposizione.
Meloni eviterebbe il referendum e di fare una campagna elettorale, come ha cominciato a fare, con i toni populisti sui partiti inciucisti e i governi arcobaleni. Sta preparando il terreno per la sua candidatura alla testa di Fratelli d’Italia alle europee.
Ma se fosse stata eletta direttamente dagli italiani il 25 settembre del 2022, i problemi che sta incontrando in Europa li avrebbe risolti agevolmente?