Quiet tweeting La copertina del New Yorker, le scadenze e i trentenni che si percepiscono schiavi

Le generazioni più giovani della mia credono che lavorare metta a rischio la psiche e altre turbe più o meno grottesche, ignorando che è proprio il lavoro anche festivo a evitarci la tombola con la suocera

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Quelli molto bravi li riconosci in un modo preciso. Quando la società si sta spostando da una parte, loro se ne accorgono prima che ci arrivino tutti, prima che il tema diventi stantio, consumato dagli editoriali e dalle interviste, prima che faccia tutto il giro.

Quelli del New Yorker a fare le copertine sono talmente bravi che si sono accorti d’un dettaglio che persino io avevo notato da poco: c’è una tendenza che non è quella che viene chiamata “quiet quitting” da chi ci tiene a farci sapere che ha fatto l’inglese alle medie; c’è una tendenza, che come tutte le tendenze folli di questo secolo viene assecondata moltissimo, a ritenere il lavoro un sopruso che la società compie sugli esseri umani.

Detta più piatta: non vuole più lavorare nessuno. È cominciata con le multimilionarie (Arianna Huffington, sto parlando con te) che ci spiegavano che in ufficio bisogna fare il pisolino, e che dopo una cert’ora guai a rispondere alle mail (modo certissimo per diventare multimilionaria solo tramite matrimonio), ed è finita che non vuole più lavorare nessuno.

Ma nessuno nessuno, non solo i fattorini di Glovo che si rifiutano di portarti la pizza al piano, gli insegnanti che s’indignano se osi dirgli che fanno molte vacanze, i rappresentanti di ogni categoria in ogni fascia di reddito che, tutti, sono stati anticipati da uno molto bravo una ventina d’anni fa. Nessuno aveva visto l’attitudine di questo secolo al lavoro con la precisione di Corrado Guzzanti quando sbottava: ma tu lo sai a che ora mi sono svegliato io stamattina?

Poco prima che il New Yorker facesse la sua copertina con una ragazza davanti al computer mentre fuori ci sono i fuochi d’artificio, e quindi è presumibilmente capodanno, ma il titolo del disegno è “Deadline”, prima che la copertina venisse equivocata come il manifesto di noialtre partite iva vessate (ma chi, ma dove, ma i tuoi bisnonni andavano in miniera, ma baciati i gomiti ogni giorno della lussuosa e comoda vita che ti spetta), prima di allora mi è comparso un tweet incredibile.

L’ha scritto il 23 dicembre una giovane farmacista (come faccio a sapere che è giovane? Come fate voialtri, piuttosto, a non rendervi conto di quante cose si capiscono della vostra biografia da quel che scrivete e da come lo scrivete).

I giovani farmacisti sono un problema sociale, non so cosa sia successo negli ultimi anni, immagino molti pensionamenti, fatto sta che io ogni volta che ho bisogno di qualche medicinale faccio un paio di chilometri, giacché l’unico bancone dove trovo una farmacista che non mi guardi come mucca guarda treno è una decina di farmacie più in là rispetto a casa mia.

Sarà, mi paventa un’amica, sempre peggio: più andiamo avanti più ci troveremo ad avere a che fare con gente più giovane di noi e quindi inevitabilmente meno preparata (ma convinta d’esserlo tantissimo, com’è inevitabile con l’arroganza giovanile). Ogni volta che il medico della mutua mi dà una ricetta timbrata con un codice fiscale che mi svela che nel suo anno di nascita io avevo già fatto il grosso di quel che avrei poi combinato nella vita, vorrei dirgli di chiamarmi i suoi genitori a controfirmarla.

La giovane farmacista e il suo tweet, o come si chiama ora, dunque. Ricopio: «Il turno di notte nelle farmacie va abolito: solo richieste di cose perfettamente rimandabili (lenti a contatto, colliri alla camomilla, fondotinta!!!) Dovete imparare a vivere e ad organizzarvi» (puntesclamativi ed eufoniche come nell’originale).

Negli stessi giorni, un altro farmacista twittava col tono di Spartaco che lui e i suoi giovani colleghi avevano imposto per la prima volta da cinquant’anni la chiusura a Natale e Santo Stefano della farmacia del paese. Rivendicava questa sua liberazione dallo schiavismo come, non so, Di Vittorio avrebbe potuto rivendicare la giornata lavorativa di sole nove ore. (Nascere a diritti già conquistati da chi ti ha preceduto porta inevitabilmente a ritenere di dover combattere per le stronzate come fossero fondamentali).

La farmacista non vuole fare il turno di notte (per cui suppongo venga pagata), il farmacista pensa che se ti viene una colica a Natale e ti serve il Buscopan ti attacchi, il fattorino non vuol fare le scale, il barista sbuffa se gli chiedi una brioche e non ha ancora aperto le scatole del fornaio, e i chirurghi della prossima generazione probabilmente ci molleranno lì a cuore aperto perché si sono resi conto d’avere bisogno d’una pausa per la loro salute mentale.

Maurizio Costanzo diceva che le conduttrici che non funzionavano erano il prolungamento con altri mezzi della boutique: una volta il commendatore all’amante apriva una boutique, ora le assegnava un programma televisivo. Woody Allen faceva dire al suo io narrante che chi non sa far niente insegna, chi non sa insegnare insegna ginnastica, «quelli che neanche la ginnastica, credo li destinassero alla nostra scuola».

Ecco, ho l’impressione che l’incrocio tra la boutique e l’insegnare ginnastica siano le dissertazioni sul quiet quitting. Tutti quelli che non hanno voglia di lavorare scrivono pensose considerazioni sul sopruso che è il lavoro, sul bisogno di emanciparsene, descrivono come fosse caporalato vessazioni quali: non ci danno i ticket restaurant nei giorni di ferie.

Racconta Gipi che, tra gli zingari di cui si prende cura, e ai quali ha appunto innanzitutto fatto frequentare la scuola e trovato lavori, uno è stato messo al bando da Facebook per aver postato la scritta «Arbeit macht frei», riappropriandosi di un concetto che non si capisce perché lasciare ai nazisti. Forse è per quello che non vogliamo più lavorare? Perché abbiamo smesso di credere che il lavoro ci nobiliti e ci liberi, e abbiamo iniziato a credere che il lavoro sia roba da fascisti?

Ognuno ha i punti di riferimento culturali che si merita, e io vorrei citare Fabio Volo, al quale ho sentito fare un’obiezione sensata. Anche lui – come tutti, da Obama ai saggisti della domenica – pensa che si vada verso un reddito universale, che sia inevitabile, che l’intelligenza artificiale e altre puttanate.

Però, obietta Volo, una volta che abbiamo trovato questi duemila o quanti sono euro al mese da darle, questa gente cosa fa tutto il giorno? Il lavoro è come il gomitolo per un gatto: ti garantisce che per otto ore al giorno sarai impegnato, intrattenuto, non a ubriacarti per le strade, a spaccare vetrine, a pisciare sui muri (la poca voglia di lavorare dei bolognesi la capisci dall’olezzo per strada, pari a quello di Parigi, altra patria di sfaccendati).

Insomma il New Yorker fa questa copertina intitolata alle scadenze, e tutte le trentenni pigolano lo vedi, il lavoro ci vessa, e qualunque adulta abbia la fortuna d’avere un lavoro che non consiste nell’asfaltare le strade o nello spadellare hamburger sa di cosa stiamo parlando.

Del nostro procrastinare continuo (le pubblicità che mi compaiono sui social cercano di vendermi app per combattere la procrastinazione quasi più spesso di quanto tentino di vendermi corsi di pilates a muro, qualunque cosa esso sia), e ritrovarci poi ogni volta come la notte prima degli esami, convinti di poter smaltire un quadrimestre di programma in una sola veglia.

Del fatto che il bello d’essere liberi professionisti (o, come si dice in neolingua, «precari») è che lavori quando ti pare, che sei come la contessa di “Downton Abbey” che si chiedeva cosa diavolo fosse un weekend, che il lavoro è la tua scusa per risparmiarti il Natale, il capodanno, l’aperitivo per il compleanno di una tizia che neppure ti è simpatica. Scusate, ho una scadenza, mi dispiace tantissimo perdermi quest’occasione.

Della meraviglia di quei pomeriggi in cui sai che nulla ti deconcentrerà, perché tutti saranno impegnati con le famiglie, con le feste comandate, con tutto ciò cui devono adempiere nei giorni di vacanza dalla vita d’ufficio, e tu potrai scrivere interi capitoli, invece che stare al freddo a guardare i fuochi d’artificio, peraltro identici attraverso la finestra avendo l’uomo in tempi in cui ancora aveva voglia di lavorare inventato il vetro.

Parla, anche, di quella cosa che in neolingua si chiama «salute mentale», e che quando avevamo il senso della realtà era un concetto ovvio: non c’è niente come non lavorare per far sbandare la psiche degli esseri umani, funziona esattamente al contrario di come i pensatori della domenica (pensatori con festivo non retribuito) cercano di vendervela.

Tra l’altro, vi faccio presente che le vacanze non lavorative sono prive di scuse per non giocare a carte con vostra suocera. Certo, potete montare la cucina-giocattolo della bambina e mettere le foto sui social e sentirvi dire che brava madre siete, ma per quei pochi secondi di dopamina indotti dai like siete state un intero pomeriggio a rompervi i coglioni: non era meglio mettere il computer nel bagaglio a mano? (Bagaglio a mano in cui, oltretutto, dovrete far entrare la cucina dopo averla smontata).

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