SoncipediaPossiamo fidarci di chi non ha capito niente né della tuta di Ferragni né dei figli di Musk?

I giornali italiani descrivono come «look dimesso» il capo costoso indossato dall’influencer nel video di scuse e continuano a confondere la prole del proprietario di X. Philip Roth non riuscì a rettificare Wikipedia, qui Soncini ci prova col consueto garbo

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«Cara Wikipedia, sono Philip Roth». Era il 2012, quando fu chiaro che non potevamo fidarci di nulla. Non che non lo sapessimo già, ma Roth decise di infierire spiegando ai lettori del New Yorker che lui aveva provato a correggere una puttanata scritta sul suo conto, ma non era stato considerato fonte affidabile per quanto concerneva i suoi libri.

Il problema delle fonti lo si può prendere da più parti, la più abituale è quella che riguarda chi ha trent’anni o meno: hanno tutte le informazioni nel telefono, com’è possibile che non sappiano mai niente di niente?

Quando spunta qualche segno d’antisemitismo, c’è sempre qualcuno che dice «è perché i giovani non sanno», ma i giovani sanno tantissimo, o comunque hanno modo di sapere tantissimo. Si parla della Shoah con una frequenza che ai miei tempi – tempi in cui ti facevano leggere Anna Frank tra i libri delle vacanze, ma poi alla seconda guerra mondiale non ci arrivavi col programma – era inesistente.

Fino a “Schindler’s List”, la Shoah non era un tema da cultura popolare. Fino al Ruanda, non si parlava di genocidi (era meglio? Era peggio? Certo, non sapevamo niente di Shoah, ma per i pronomi sbagliati non ci avventuravamo a parlare di «genocidio trans»: eravamo più ignoranti ma avevamo più senso del ridicolo, paradossalmente).

Tuttavia quest’ultima settimana mi ha messo addosso un dubbio: se anche questi giovani inattrezzati volessero informarsi, di chi potrebbero fidarsi?

Se i giornalisti italiani ripetono compatti che quello sul palco con Elon Musk era un bambino nato da gestazione per altri, avendo a disposizione in ogni biografia e articolo su Musk l’informazione che l’unica gestata da terze, degli undici figli da lui generati, è una femmina, si può ancora credere ai giornali? Non sanno verificare un’informazione così banale, chissà cosa ci raccontano sulle questioni complesse.

Se Philip Roth ci svela che Wikipedia è piena di puttanate, si può credere alle enciclopedie dilettantesche? Venderanno ancora quelle professionali? Quand’ero piccola a Bologna c’era una truffa: ti vendevano un’enciclopedia per bambini promettendoti in cambio un provino allo Zecchino d’oro. Era una truffa, ma magari nell’enciclopedia le informazioni erano più verificate (certo che feci il finto provino, che domande).

Se Chiara Ferragni, dopo anni di pubblicistica sul quiet luxury e saggistica sul guardaroba di “Succession”, compare in video con una tuta d’angora grigio perla, e tutti i giornali compattamente titolano «look dimesso», e ai miei poveri occhi tocca leggere che è vestita da Caritas o da galeotta, se insomma non solo le nozioni ma anche lo sguardo non è attendibile, a cosa possiamo credere?

Il guardaroba di Chiara Ferragni funziona così. Lei non compra niente, mai: sennò che esponente principale dello schieramento di chi vive a scrocco sarebbe. Il suo staff domanda per suo conto omaggi, ma attenzione: Chiara tagga (cioè: dichiara la marca) solo gli abiti coi cui produttori ha contratti da testimonial.

Tutti gli altri sono in genere molto lieti di mandarglieli comunque (tempo fa una p.r. mi ha raccontato di averle rifiutato degli omaggi, causa appunto regola del non tag che le aveva esposto lo staff; più che tutto il resto, mi aveva colpito che Ferragni facesse chiedere capi alla marca per cui lavorava quella p.r., un’etichetta con cui pensavo si fossero vestite per ultime le ragazze di “Non è la Rai”).

Giacché quando Chiara indossa qualcosa c’è poi l’indotto del fanatismo: pagine che indovinano da chi sia vestita, pagine che lo indicano a chi la voglia emulare (o anche solo a chi trovi di suo gradimento un certo capo d’abbigliamento, pur non fregandogliene granché di emulare la Ferragni), e insomma la pubblicità è comunque assicurata.

Adesso sembra chissà che sforzo, perché siamo abituati a cliccare su qualcosa e venire condotti senza sforzo al negozio on line. Ma se eravate vive negli anni Ottanta, quando vedevi un vestito che ti piaceva su un giornale, e in fondo al giornale c’era la lista dei marchi fotografati, e un qualche numero di telefono, che in genere era quello d’uno showroom milanese dove non avevano la più pallida idea di ciò che ti interessava, cioè sapere in che negozio della tua provincia potessi ottenere ciò che il giornale ti aveva fatto desiderare; se avete fatto la gavetta da acquirenti in quegli anni ostici, capirete che Chiara Ferragni senza tag ma con mille pagine pronte a mettere le didascalie è la risposta a quel lamento di Carrie Fisher: la gratificazione istantanea ci mette troppo.

Dunque Chiara Ferragni deve aver chiesto in omaggio la tuta di lana e angora con cui ha fatto il video di scuse, e l’aveva indossata pochi giorni fa in montagna. Senza tag, ma con foto. La ragione per cui lo so è che la sveglia marca della tuta ieri non ha ripostato il video di scuse: ha ripostato una foto fatta a Sankt Moritz l’8 dicembre, una foto in cui Chiara si metteva in posa in lana (che però sembra cashmere) grigia.

Sono abbastanza svegli da dire al mondo: lo so che volete la tuta delle scuse, lo so che avete capito che altro che look dimesso, quella è la tendenza di questi anni, roba costosa che non ostenti il proprio essere costosa, eccola qui, vedete, se l’era già messa, accattevilla.

Nel pomeriggio, sul sito del marchio, la tuta di lana e angora da seicento euro era esaurita in nero, in bianco, in grigio. Erano già tutte lì, le clienti che magari intanto postavano indignazione per la beneficenza mancata, col loro bravo quiet neppure troppo luxury addebitato sulla carta di credito.

Intanto i saperlalunghisti social avevano tentato di spacciare quella tuta d’angora per un cardigan Loro Piana, d’un grigio simile ma d’un numero di fili di cashmere che la tuta se li sogna, ed è stato lì che si è capito che non c’è da fidarsi.

Come l’Anna Oxa del 1978, il commentatore del 2023 non vede più la realtà. O dice che è vestita dimessa e in acrilico – Chiara Ferragni, che normalmente fa i video indossando i pigiami da lei prodotti, quelli sì in impresentabile acrilico – o prende l’angora di medio prezzo e la spaccia per cashmere da segmento lusso del mercato.

Cara Wikipedia, sono un’acquirente di golf da ricchi, e lettrice di articoli meno disinformati di quelli italiani sui troppissimi figli di Elon Musk, e aspirante provinanda dello Zecchino d’oro, e vorrei rettificare.

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