Che cosa ci dice il caso Ferragni dei giornali italiani e del loro pubblico, parlando di entrambe le entità da vive? Per spiegarlo racconterò, come al solito, di me.
«A me non lo fanno scrivere» è la frase che mi sono sentita dire più spesso da aspiranti compilatrici di articoli di costume negli anni in cui esistevano i giornali, e quindi esisteva anche gente che ambisse a scriverci.
Erano gli anni in cui noialtre pagate uno sproposito per scrivere puttanate pensavamo con qualche ragione quel che dice Meryl Streep nel “Diavolo veste Prada”: tutti vogliono essere noi. (Erano anche gli anni in cui se dicevi «fashion blogger», il modo in cui si chiamavano le Chiara Ferragni all’epoca, nelle riviste di moda ti guardavano con raccapriccio – ma qui dovremmo aprire un altro capitolo).
La risposta che non potevo dare alle aspiranti qualcosa era: sii me. Cioè: sii abbastanza arrogante da dire «Dobbiamo fare questo pezzo perché lo dico io, che come ti ho già dimostrato cento volte capisco come gira il mondo meglio di te e tra due mesi mi darai ragione». Non glielo potevo dire perché i capiredattori sopportano una sola collaboratrice prepotente alla volta, ed era il turno mio.
Quindi svelavo loro un trucco minore. Non devi dire: fidatevi di me, sta tornando il rosa, facciamo un pezzo. Devi dire: sta tornando il rosa, l’ho letto sul Financial Times. Nessuno, in una redazione italiana, ha mai detto di no a un’idea che non fosse di chi proponeva di scriverla ma di qualche testata straniera alla quale l’automatismo annettesse «l’autorevole».
Mi è tornato in mente ieri: siccome il giorno prima il Guardian e Bloomberg si erano occupati di Chiara Ferragni, Repubblica ci ha fatto il titolo più importante della giornata, quello di prima pagina che a Roma si chiama «d’apertura» e a Londra «above the fold». Per intenderci circa le priorità, sotto al titolo «Basta truffe, stretta sugli influencer», che annunciava le intere seconda e terza pagina dedicate a questa importantissima notizia, e pure uno scrittore che si esercitava sul tema nella pagina degli editoriali, il secondo titolo, quello in mezzo alla pagina, era «Nazismo, no ai risarcimenti».
Lo so, «priorità» è una parola che ti posiziona subito nella curva ferragna, avendo il marito della signora bisticciato con Myrta Merlino che gli ha mandato un inviato sotto casa (invece d’intenerirsi per il poverino i cui genitori hanno speso tanto per farlo studiare e dire al paese che il figlio fa il giornalista, e quello passa i pomeriggi sotto casa della Ferragni).
Ma io non ne faccio una questione di priorità dell’informazione (di poche cose, forse di nessuna, mi frega meno che dell’informazione). Ne faccio uno studio sul pubblico cui si parla. A che pubblico parlava Repubblica nel 2003? A che pubblico parlava Repubblica vent’anni dopo?
Nel 2003 va in onda la prima edizione dell’“Isola dei famosi”. Quella del tozzo di pane di Pappalardo, di Walter Nudo, di «A Natale tutti insieme»: chi era vivo lo sa. Chi era vivo e viveva chissà dove e l’unico modo che aveva per informarsi sull’Italia era Repubblica non ne sa niente, giacché, nelle nove settimane in cui “L’isola dei famosi” passò da quattro milioni a dieci e mezzo di spettatori, e divenne un tantino egemone della conversazione collettiva, Repubblica ritenne di non dedicare una riga una al programma.
Non un articolo di cronaca, non una recensione, non un’intervista anche prendendola alta, che ne so: all’inventore del format invece che a qualche soubrette anziana. Niente. Il rimosso. Se non ne parliamo noi non esiste. E uno dice vabbè ma quella era Repubblica di Ezio Mauro, mica oggi.
Avanzamento veloce. Vigilia di Natale 2023. Repubblica pubblica due articoli su Chiara Ferragni. Uno è un editoriale di Concita De Gregorio, la quale per un terzo delle righe si picca di non sapere niente di Chiara Ferragni (se solo vent’anni prima a qualcuno fosse venuta l’idea di fare un articolo dicendo «di Walter Nudo non so niente e non m’importa d’informarmi», l’archivio del giornale non sarebbe così desolatamente vuoto). L’altro è un articolo d’una milanese mai passata da corso Como.
Dico subito che sono in una posizione di vantaggio rispetto alla cronista di Repubblica. Ho abitato per parecchi anni davanti al negozio di Chiara Ferragni, tra corso Como e piazza Gae Aulenti, e quindi mi è più facile sapere una cosa che però sanno proprio tutti, fuori dalla redazione di Repubblica: il negozio di Chiara Ferragni è sempre vuoto.
È perché Chiara Ferragni la seguiamo tutti per vedere i video buffi dei bambini, e nessuno per comprare le mutande d’acrilico? È perché a lei stessa non frega niente della merce da lei prodotta, da lei prodotta solo per poter dire di sé «sono un’imprenditrice», sottinteso «mica solo una che si fa le foto»? Chi ne capisce dice che la seconda ipotesi è senz’altro vera: Ferragni non fa mai gli «in-store», le presenze in negozio che attirano folle e che sono il modo in cui si vende in un’epoca in cui persino i romanzi si comprano per farsi la foto con l’autore, figuriamoci le mutande d’acrilico.
Fatto sta che il negozio è sempre vuoto, ma Repubblica se ne accorge a Natale 2023, allorché ci svela che il negozio è vuoto in seguito allo scandalo. La direzione di Ezio Mauro sarà pure finita, ma che al pop ci si arrivi sempre troppo tardi e comunque male pare essere una tradizione consolidata nel giornale che non esita a intervistare anziane soubrette concorrenti adesso, che i reality sono residuali e irrilevanti e trash (nel senso tecnico, non in quello in cui usano la parola i giornali italiani).
Ma il lettore di Repubblica chi è? Perché io alla vigilia di Natale ho pensato che avesse ragione Concita De Gregorio, che facesse benissimo a fingere di non conoscere Chiara Ferragni, che il lettore di Repubblica volesse quello, specchiarsi in un’editorialista che gli dice a noi della Ferragni non importa niente, noi la sera prima di dormire leggiamo sempre Gramsci e mai Carolina Invernizio, a noi fa anche un po’ schifo l’idea di saperne qualcosa di ’sta Ferragni.
Epperò ieri il lettore di Repubblica ’sta Ferragni se la trovava above the fold, fotografata con un uovo di Pasqua. Al cui proposito. Il modulo della beneficenza vaga non se l’è inventato Chiara Ferragni. Le aziende lo propongono a varie influencer, alcune accettano, alcune no. Su Amazon il prodotto è esaurito, ma esiste ancora la pagina dell’uovo di Pasqua benefico di Clio Make Up, influencer di trucchi da tre milioni e mezzo di follower. La dicitura sul prodotto, ricopio da Amazon, era: «Con quest’uovo potrai sostenere ed aiutare la fondazione Operation Smile Italia che si impegna a fornire cure mediche e chirurgiche a bambini affetti da malformazioni cranio-maxillo facciali perché un sorriso può cambiare una vita».
Ignoro di quanto fosse la fattura della signora Clio per la prestazione di testimonial delle uova che «possono sostenere» (tipo reggiseno col ferretto) i bambini malati. Ignoro quanta parte del costo delle uova sia andata alla fondazione.
Ignoro se qualcuno se ne occuperà, esaltato dai clic (non so se la signora Clio porti clic quanto la signora Chiara) o anche solo sovreccitato dall’eventuale interesse dei collaboratori più scarsi dei giornali anglofoni, quelli messi a coprire questa remota provincia.
Ignoro come il presidente di AgCom, che ieri spiegava a Repubblica le nuove regole e la sua inesistente rivalità con l’antitrust che ha già multato la Ferragni (per carità, non sono affatto a caccia di riflettori, son gente seria loro, non hanno ego né vanità), ritenga di regolamentare quello che viene detto su piattaforme americane. Ricordo peraltro che nel luglio 2018 Ferragni fece quel che secondo coloro che annunciano nuove regolamentazioni ora non si potrà più fare.
Mise sulla sua pagina Instagram, con un post in inglese e quindi neppure indirizzato alla clientela italiana, una pubblicità di latte artificiale, che in Italia è vietato pubblicizzare giacché siamo devote alla tetta. La rivolta delle mamme fu tale che Ferragni lo cancellò. La morale temo sia: l’unica legge che funziona è quella del consenso, che peraltro regolamenta il secolo tutto, figuriamoci l’attività di Ferragni.
L’unica ragione per cui questa storia sta sulla prima pagina di Repubblica è che il ricatto i-bambini-malati ha trasformato un pasticcio minore – un ingaggio come testimonial di beneficenza molto ben retribuito, a fronte d’una donazione dell’azienda veramente micragnosa – in un «Barabba, Barabba» in cui Ferragni è percepita come una che è entrata con un mitra in un orfanotrofio.
Il problema del consenso è che non lo puoi regolamentare, non lo puoi legiferare, non lo puoi ottenere con una formula matematica e neanche recuperare con una pari donazione. È una formula magica che non conoscono neppure quelli che la applicano, altrimenti al posto di Chiara Ferragni ci saremmo io, voi, Ezio Mauro, Walter Nudo, il presidente dell’AgCom.