Effetto dominoLa paura matta degli opinionisti di destra che la sconfitta in Sardegna non sia un incidente di percorso

Avvertimenti, consigli costruttivi e addirittura critiche. La galassia dell’informazione dei tre partiti di maggioranza chiede a Meloni di rinnovare la classe dirigente e di non chiudersi in una sindrome di accerchiamento. Basterà a non perdere in Abruzzo?

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Quando il centrodestra ancora litigava sulla candidatura in Sardegna, il 12 gennaio Alessandro Sallusti scriveva un editoriale preoccupato sul Giornale. Attenzione, diceva, «o questa cosa la si risolve in poche ore o questa frattura sarà il primo vero inciampo sul cammino della maggioranza». È noto, aggiungeva, che un granello di sabbia può inceppare rovinosamente anche il meccanismo perfetto: è lungo l’elenco di palle di neve diventate inaspettatamente slavine.

Ora, con il voto sardo, la palla di neve ha cominciato a prendere volume e sta gelando non solo i quartier generali della maggioranza, ma anche i giornalisti di destra che animano i talk show. Soprattutto quelli che fanno capo al re delle cliniche, Antonio Angelucci, deputato della Lega (prima di Forza Italia). Conoscono i sondaggi che danno il candidato del centrodestra Marco Marsilio in Abruzzo (lì si vota il 10 marzo) avanti solo di alcuni punti. Così succede che sulle loro pagine emergano critiche al quartierino della presidente del Consiglio. Daniele Capezzone, vicedirettore di Libero, il pasdaran preferito da Nicola Porro su Rete4, in un editoriale ha invitato i leader del centrodestra a «non archiviare la sconfitta sarda come un mero episodio sfortunato, di non rinchiudersi nel bunker in cui qualcuno pare purtroppo mentalmente intrappolato».

È una critica amica, un consiglio costruttivo, ma ricalca perfettamente l’accusa velenosa del centrosinistra: non c’è una classe dirigente all’altezza accanto a Meloni. La presidente del Consiglio attinge sempre nel cerchio stretto della Fiamma, si fida degli amici ante marcia, degli intellettuali d’area. Ha tante «bocche da sfamare, in sala d’attesa da anni». «Al centrodestra – scrive Capezzone – farebbe molto bene aprirsi e dare l’idea che si avvii una stagione di opportunità per tutti a prescindere dall’appartenenza».

Forse in questi ragionamenti c’è un riflesso dell’esperienza fatta dal direttore responsabile di Libero Mario Sechi, che da Palazzo Chigi è andato via. Quando ha fatto il portavoce di Meloni si sentiva fuori posto, un estraneo, un ospite che dopo un po’ comincia a essere ingombrante. L’altro ieri Sechi ha scritto degli errori del centrodestra e del rischio di un «big bang futuro». Arrivando a dire che la candidatura sbagliata di Truzzu in Sardegna è «il primo vero errore di valutazione fatto da Giorgia Meloni da quando è premier». Per Sechi i cicli politici sono accelerati e il centrodestra dovrà trovare un assetto diverso da quello visto finora: «Gli elettori hanno suonato la sveglia».

Avvertimenti, scricchiolii, paure, la certezza che il contrasto tra Meloni e Salvini si sia acuito dopo le elezioni sarde, come scrive Adalberto Signore sul Giornale. Raccontando di una riunione di maggioranza, riferisce che Donzelli avrebbe chiesto agli alleati di Forza Italia di mettere la museruola al vicepresidente della Camera Giorgio Mulè. Il quale ha definito arrogante la decisione di candidare Truzzu. La presidente del Consiglio invece, sostiene il vicesegretario leghista Andrea Crippa, dovrebbe fare come Berlusconi: rivendicare il proprio candidato ma poi avere uomini all’altezza, come Luca Zaia in Veneto. E si ritorna al terzo mandato rivendicato da Matteo Salvini, alla mancanza di classe dirigente di Fratelli d’Italia. Perché, sostiene il vicedirettore della Verità Francesco Borgonovo, la «batosta» presa dal centrodestra è avere sbagliato platealmente il candidato.

Ora fiato sospeso fino all’11 di marzo, quando arriverà il responso delle urne abruzzesi. Il 5 a Pescara saliranno sullo stesso palco Meloni, Salvini e Antonio Tajani accanto a Marco Marsilio, per il quale quello sardo è stato solo un incidente di percorso. Il governatore abruzzese, anche lui un fedelissimo di antica data della leader di Fratelli d’Italia, considerato il migliore amministratore che il partito abbia saputo esprimere, incrocia le dita. È più sicuro: non ha, come in Sardegna, l’incubo del voto disgiunto. In Abruzzo non ci sono fronde e candidati cambiati in corsa. Dovesse perdere pure lui, sarebbe la fine del tocco magico della presidente del Consiglio. E la stampa di destra potrebbe scrivere che Giorgia non ne azzecca più una.

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