Il successo politico di Elly Schlein ottenuto con l’intesa con Giorgia Meloni sul cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi (a dire il vero non si capisce se il primo sia condizione della seconda o viceversa), spinge in modo decisivo la sua candidatura alle elezioni europee. Oggi più di ieri infatti Schlein rappresenta un valore aggiunto per la lista del Partito democratico: probabilmente annuncerà al Congresso del socialisti europei il 2 marzo dove e come si presenterà, ma certamente sarà in campo come frontrunner del principale partito dell’opposizione per contrapporsi, come in tutte le democrazie, alla leader del principale partito di governo. Logica vorrebbe che la leader guidasse le liste in tutte le circoscrizioni, ma nel Partito democratico sorgono sempre ostacoli che forse la indurranno a scegliere non il posto da capolista. In fondo, però, questo è un dettaglio. L’operazione politica sul Medio Oriente ha portato fiducia tra i dem e la segretaria: facendo – finalmente, dice qualcuno – la segretaria, si è rafforzata molto.
Con i testi approvati alla Camera martedì, l’Italia ha una posizione più chiara e condivisa, in piena sintonia con quella degli Stati Uniti, che servirà relativamente, ma si fa quel che si può. Il punto politico è che, sulla politica estera, l’unità governo-opposizione è essenziale e anzi dovrebbe essere la regola – come ben sapevano i leader della Prima Repubblica almeno dagli anni Settanta in poi, i quali di fronte alle grandi crisi sapevano dialogare pur nelle differenti collocazioni politiche generali.
Allora, riconosciuto ogni merito alle due leader e ai loro collaboratori, va detto anche che la convergenza tra governo e Partito democratico è il minimo sindacale. Oggi sembra un capolavoro politico quello che è un risultato abbastanza scontato e persino dovuto, perché in quest’epoca muscolar-mediatica un po’ di politica sembra chissà che: certo rispetto ai vari pasticci combinati in Parlamento sull’Ucraina un minimo di ragionevolezza è un piccolo raggio di sole ma Giorgio Napolitano, Gianni De Michelis e Giulio Andreotti avrebbero impiegato cinque minuti a fare l’accordo, e molto tempo prima degli attuali protagonisti.
“Cessate il fuoco” non è insomma questa genialata, specie se non si dice come arrivarci, ma non c’è dubbio che per come si sono svolti i fatti Elly Schlein abbia riportato un successo personale che la rafforza in un partito che sotto la coltre della condotta parlamentare rimane spaccato tra le posizioni di Laura Boldrini e Piero Fassino, per fare due nomi significativi.
Anche a Meloni va dato atto di aver fatto la sua parte (così come serie sono state le posizioni di Antonio Tajani e dell’area liberale) perché ben comprende che all’estero si apprezza ogni convergenza.
Il risultato secondario, ma molto importante, dell’accordo Schlein-Meloni è semplicissimo: quando le due leader fanno un minimo di politica, Giuseppe Conte e Matteo Salvini scompaiono. Il primo ha cercato di caratterizzarsi in qualche modo ma è stato totalmente oscurato dalle due leader e poi s’è adombrato schiumando rabbia. Il secondo non è proprio esistito. La politica ammazza il populismo: questa è la vera lezione di martedì scorso. Se tale metodo fosse seguito anche in altri ambiti, dalle riforme istituzionali all’economia, si toglierebbe l’acqua nella quale i populisti sguazzano e la lotta politica farebbe un salto di qualità, certamente dannoso per gli sfasciacarrozze che vivono di populismo, ma utile per la democrazia. Trattare, trattare, trattare. Sta qui l’anima profonda della politica, per chi la sa fare.