Di fronte alle drammatiche immagini di una giovane donna in catene che trascina i piedi con le cavigliere ed è tenuta al guinzaglio dai suoi guardiani, il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani non ha saputo che farfugliare: «In punto di diritto Orbán non c’entra niente. Non è che il governo decide il processo. La magistratura è indipendente».
Molti altri, i garantisti a corrente alternata, per lo più hanno risfoderato la foto altrettanto tremenda di un politico, Enzo Carra, tratto ignobilmente a giudizio in catene ai tempi di Mani pulite. Una delle penne più acute del giornalismo italiano, Mattia Feltri, che a me sempre più spesso ricorda la cultura enciclopedica ai limiti della pignoleria che fu di Alberto Ronchey, ha elencato puntigliosamente la vergognosa classifica italiana in tema di violazioni della Convenzione dei diritti umani.
Tutto vero: il nostro Paese non può impancarsi a fare prediche agli altri quando non è in grado di tutelare la dignità di migliaia di detenuti, o di assicurare che essi escano vivi da una notte in cella, come Stefano Cucchi, o che non li si torturi per farli parlare (ricordate il rapimento del generale James Lee Dozier?) o per puro sadismo come nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e nella caserma di Bolzaneto.
Però Mattia Feltri sa bene che una democrazia che si macchia di atti di orrore ha in sé la capacità di indagare e punire i colpevoli, e questo è avvenuto per tutti quei fatti. Quello che invece non accade nelle “democrature” come quella di Viktor Orbán – dove si risponde solo agli ordini di un superiore e chi è in cima alla piramide, come ci ha detto l’acuto giurista Antonio Tajani, «in punto di diritto non c’entra niente».
In Italia, in Europa, negli Stati di diritto, insomma, esiste la “posizione di garanzia” per cui chi detiene le chiavi del comando risponde anche di ciò che non ha saputo e voluto prevenire.
C’è poi un aspetto non secondario, da un pezzo l’Ungheria non rispetta gli standard minimi che una democrazia basata sulla Rule of Law deve rispettare, a partire da quella più elementare: la divisione dei poteri. Per tali motivi è sottoposta dal 2021 a una formale procedura di infrazione da parte della Commissione europea. Molto semplicemente, e contrariamente a ciò che ritiene Tajani, in punto di diritto la magistratura ungherese non gode di alcuna autonomia.
Linkiesta lo aveva spiegato in tempi non sospetti: nella repubblica magiara è stato costituto l’Ufficio Giudiziario Nazionale (Obh), il cui presidente di esclusiva nomina governativa è responsabile del funzionamento e dell’efficienza dell’amministrazione nazionale della Giustizia.
Nell’esercizio delle sue funzioni, il presidente dell’Obh adotta «decisioni, regolamenti e raccomandazioni». Il presidente dell’Obh è eletto dal Parlamento nazionale – a maggioranza dei due terzi dei deputati – su proposta del presidente della Repubblica.
Il Parlamento europeo, con una apposita deliberazione, nel 2022 ha denunciato lo stato di conflitto tra l’Ufficio Giudiziario Nazionale e il Consiglio Nazionale della Magistratura (Obt) in tema di nomine, e di conferimento di incarichi direttivi, a partire da quella del presidente del supremo ordine giurisdizionale, la Kuria.
Forse i minimizzatori di casa non sanno che ai giudici ungheresi è vietato financo di potersi rivolgere alla Corte di giustizia europea per valutare la conformità delle leggi interne ai trattati europei (il rinvio pregiudiziale) e anzi farlo costituisce infrazione disciplinare col rischio di perdere il posto di lavoro.
E non si parla di profili secondari: uno dei quesiti posti da un coraggioso giudice concerneva il diritto dell’imputato alla traduzione nella sua lingua degli atti di causa. Per inciso è ciò di cui si duole anche il difensore di Ilaria Salis, che non è stata messa in grado di leggere gli atti.
Come ha osservato la Corte di Giustizia europea, «la sottoposizione dei giudici comuni a procedimenti disciplinari per il fatto che questi abbiano operato un rinvio pregiudiziale assurge nell’attuale contesto di profonda crisi della “Rule of Law” in alcuni Stati membri a una sfida esistenziale al diritto europeo» (Cgue, sentenza del 23 novembre 2021, C-564/19, IS).
Ecco di questo discutiamo quando parliamo del guinzaglio di Ilaria Salis: dello Stato di diritto. In punto di diritto.