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Alla fine del Ventesimo secolo si è diffuso il neologismo lawfare per indicare il modo in cui i potenti usano i sistemi giudiziari per attaccare i loro avversari politici. Quando questo accade, la stessa istituzione incaricata di garantire la giustizia viene trasformata in uno strumento di oppressione, in un’arma usata dai potenti per garantirsi il raggiungimento dei propri obiettivi politici e per reprimere la dissidenza. Tra le tattiche più comuni di guerra giudiziaria vi sono: i procedimenti privi di fondamento; l’ostruzione dei processi e la creazione di ritardi per neutralizzare a tempo indefinito le persone colpite da imputazioni; le campagne mediatiche volte a diffamare gli oppositori; la disinformazione; la violazione del diritto internazionale.
In America Latina, la criminalizzazione e l’incarcerazione degli ambientalisti e dei leader indigeni che lottano contro l’espropriazione delle loro terre da parte delle imprese multinazionali è ormai una pratica diffusa.
La mia opera narrativa, per ora, non ha tratto ispirazione dal lawfare. Ma gli scrittori della mia generazione sentono la violenza dello Stato – che, insieme alla corruzione istituzionale e al razzismo, ha caratterizzato la storia del Guatemala – come un tema urgente, quasi obbligatorio, come un qualcosa di cui quasi tutti ci siamo nutriti. E, in effetti, i miei primi racconti e i miei primi romanzi si sono alimentati dell’atmosfera violenta del Guatemala.
Uno dei miei zii morì bruciato nel pomeriggio del 31 gennaio 1980, durante l’occupazione dell’ambasciata spagnola in Guatemala, insieme a un comitato di leader maya che si erano recati nella capitale per denunciare una serie di gravi violazioni dei diritti umani commessi dall’esercito guatemalteco nei loro territori di origine. Quegli abusi avrebbero segnato l’inizio del genocidio dei maya ixil. Dopo una telefonata arrivata dall’ambasciata, che era stata appena occupata, io e mia sorella Magalí, che all’epoca avevamo appena vent’anni, fummo mandati lì per consegnare una medicina per il cuore a nostro zio, che era stato inavvertitamente preso in ostaggio mentre si trovava all’ambasciata per parlare dell’organizzazione di una conferenza giudiziaria internazionale. Un cordone di agenti della polizia nazionale ci sbarrò il passo e un noto giornalista, arrivato pochi istanti prima, ci avvertì che la polizia stava per fare irruzione nell’ambasciata. Vedemmo diversi agenti salire su un balcone al secondo piano, armati di armi d’assalto e di quelli che sembravano essere dei lanciafiamme. Udimmo un’esplosione e una piccola nuvola nera uscì da una finestra. Pochi secondi dopo, benché ci trovassimo a più di sessanta metri dall’edificio assediato, sentimmo un odore di carne bruciata.
Il ricordo di quel pomeriggio, in cui trentasette persone morirono bruciate, non smetteva di perseguitarmi e una volta mi svegliai da un sogno in cui mangiavo un pezzo di carne arrostita proveniente dal corpo bruciato di mio zio. Era come se l’aspirante scrittore che era in me avesse intuito che la violenza di ciò che mi circondava sarebbe diventata una sorta di nutrimento letterario. La distruzione del mondo naturale – e la corruzione che l’accompagna – è un altro tema che ha fecondato la mia scrittura.
Il mio primo romanzo, Quel che sognò Sebastián (pubblicato in italiano da Mondadori nel 1999, ndr), inizia con il conflitto tra Sebastián Sosa, un ambientalista di città giovane e idealista, e una famiglia di bracconieri nella giungla del Petén. Il tentativo di Sosa di imporre i suoi valori ha conseguenze catastrofiche per lui e per coloro che lo circondano.
In Guatemala, all’inizio e alla metà degli anni Ottanta, poco dopo il genocidio dei maya ixil, grandi porzioni di giungla cominciarono a essere devastate su ordine di potenti proprietari terrieri per essere poi convertite in allevamenti di bestiame e in piantagioni di canna da zucchero o di palme da olio africane. Durante il governo del generale Efraín Ríos Montt (che trent’anni dopo sarebbe stato processato e dichiarato colpevole di genocidio e crimini contro l’umanità), mia sorella Magalí – ispirata dagli scritti di San Francesco d’Assisi, del Capo Seattle e di Rachel Carson – fondò Defensores de la Naturaleza, una delle prime organizzazioni non governative ambientaliste del Guatemala. E insieme ai suoi collaboratori convinse un gruppo di persone influenti della necessità di creare delle aree protette in ogni parte del Paese.
Nel 1986, il primo governo democraticamente eletto del Guatemala dopo una serie di dittature militari proibì lo sfruttamento di queste riserve naturali, in cui erano già in corso delle indagini esplorative da parte di aziende del settore del legname e della carta. Di conseguenza, Magalí fu percepita da molte delle persone che appartenevano alla sua stessa cerchia sociale e le cui attività erano state colpite – tra loro c’erano degli allevatori di bestiame e dei proprietari di grandi piantagioni o di aziende che si occupavano di disboscamento – come una traditrice impegnata in modo fanatico nella protezione della natura a discapito del progresso economico. La stampa la etichettò come comunista, come “eco-isterica” e come eco-terrorista.
Uno dei miei romanzi più recenti, El país de Toó, ruota attorno alla resistenza del popolo maya contro un’industria mineraria distruttiva protetta dalla legge.
All’inizio di questo secolo, quando pochi in Guatemala erano consapevoli degli effetti sull’ambiente – devastanti e irreversibili – delle moderne miniere a cielo aperto, alcune compagnie minerarie iniziarono ad acquistare grandi appezzamenti di terreno. Pochi anni prima di questa “corsa” mineraria, era stata redatta una legge che regolamentava l’attività estrattiva – ma poi si scoprì che gli esperti legali che erano stati interpellati in quell’occasione erano a libro paga delle compagnie minerarie.
Secondo uno studio ufficiale sull’impatto ambientale, quella legge permise alla Montana Exploradora, una filiale della potente compagnia mineraria canadese Glamis Gold, di utilizzare in modo completamente gratuito, miscelandovi cianuro e altri prodotti chimici nocivi, fino a sei milioni di litri di acqua al giorno nel territorio di Sipacapa, un comune estremamente povero degli altopiani occidentali del Guatemala. Una famiglia di Sipacapa consuma in media cinquemila litri di acqua al mese.
Alcuni dei più ricchi giacimenti minerari del Guatemala si trovano sugli altopiani occidentali, dove la densità della popolazione maya è estremamente elevata. Dal 1996, il Guatemala ha accolto più di trecento richieste di licenze per l’esplorazione e lo sfruttamento o dei minerali. Fu a partire da allora che, per la prima volta, gli interessi ambientalisti occidentali e l’ancestrale desiderio di conservazione dei maya si sarebbero uniti in una lotta comune. Negli ultimi decenni, molti attivisti maya sono stati assassinati (o incriminati e imprigionati con l’accusa di terrorismo, di furto, di blocco stradale illegale o di qualsiasi altro reato) per essersi opposti all’invasione delle loro terre.
Nel mio libro El país de Toó si svolgono vicende simili alle lotte a cui abbiamo assistito in Guatemala nei territori maya. Nel romanzo appaiono delle istituzioni corrotte, come lo sono oggi i più alti tribunali del Guatemala, che sono dominati da giudici che hanno comprovate complicità con alcuni gruppi di potere che operano in politica e con il crimine organizzato. Alcuni di loro compaiono nella Lista Engel delle personalità corrotte e non democratiche dell’America Centrale, creata dagli Stati Uniti e pubblicata ogni anno a partire dal 2021 (questo “elenco” deve il suo nome all’ex deputato democratico americano Eliot Engel, che ne è stato il promotore, ndr). Il romanzo, tuttavia, si conclude con la nascita di una piccola nazione maya in una porzione di territorio che si è emancipata da una Repubblica centroamericana infettata fin dalla sua fondazione dalla corruzione politica.
Oggi come quarant’anni fa (ma forse è sempre stato così), realtà e finzione appaiono intercambiabili. La guerra condotta attraverso i tribunali continua a diffondersi a livello globale: dagli Stati Uniti, dove l’ex presidente Donald Trump ha tentato di contestare i risultati delle elezioni del 2020, alla Russia, dove il presidente Vladimir Putin si serve della manipolazione del sistema giudiziario per incarcerare i giornalisti indipendenti che fanno luce sulle storie che ha inventato per giustificare l’invasione dell’Ucraina. Dalla Nigeria al Kenya, da Israele alla Cina, la legge è diventata un’arma.
In Guatemala, dopo che nello scorso agosto è stato democraticamente eletto un candidato dell’opposizione di centrosinistra, il procuratore capo della Procura speciale contro l’impunità, che è un illustre membro della Lista Engel, ha annunciato una serie di misure legali contro i dirigenti del partito che ha vinto nelle urne, compreso il presidente eletto, per un presunto utilizzo di dati falsi nelle liste elettorali.
Nei prossimi anni, la tendenza a trasformare il sistema giudiziario in un campo dove si consumano gli scontri politici contribuirà probabilmente all’incarcerazione per reati immaginari di un numero sempre maggiore di attivisti, giornalisti e scrittori. E, visto che la violenza, il razzismo e la corruzione dello Stato hanno alimentato per decenni la mia scrittura e quella di molti colleghi, forse questa tendenza globale alla distorsione giuridica alimenterà una nuova ondata di letteratura scritta dietro le sbarre.
© 2023 RODRIGO REY ROSA
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