Il comunicato da indipendenti di centro sociale con cui +Europa si accredita sulla scena “legalitaria” in compagnia del Sudafrica, delle finte avvocate dell’Onu in lotta contro la lobby giudaica e del personale UNWRA addetto alla manutenzione dei server di Hamas rappresenta la miglior prova del trionfo anti-israeliano e anti-sionista anche negli interstizi della politica italianona, lì dove immagineresti qualche ipotetica capacità di resistenza all’andazzo comune e lì dove invece la contaminazione risulta anche meglio, come lo sporco indurito nelle fughe delle piastrelle.
Acchiappare la notizia di un incidente molto grave, di cui non si sa bene nulla, e rivoltarla nel tweet impaginato per reclamare il “cessate il fuoco immediato” (quello che manco la Corte Internazionale di Giustizia), ovvero per condannare “la carneficina di Gaza”, circa la quale “non può esserci alcuna giustificazione”, o ancora per auspicare “che gli stessi israeliani mandino a casa il prima possibile Netanyhau, che con la sua guerra sta portando Israele all’isolamento”, significa fare surf sulle mareggiate di melma che portano la notizia inoppugnabile, siccome certificata dall’Ordine dei giornalisti di Settembre Nero, e cioè che l’esercito dell’Entità sionista spara sui disperati in fila per il pane.
Perché questo – sulla scorta di nessuna prova posta a documentarlo – è stato immediatamente scritto dallo schieramento informativo arcobalen-goebbelsiano cui ritengono di ispirarsi certe istanze di legalità internazionale, pressappoco le filiali italiane del ragionamento complesso sulle responsabilità dell’occupante suprematista: è stato scritto che c’era della povera gente che aspettava la distribuzione di un po’ di farina, e che i soldati israeliani in astinenza di strage hanno cominciato a fare fuoco su quella povera gente, facendo centinaia di morti. Donde, l’esplodere dello sdegno più europesco nel tweet che dice “BASTA!” a tanto crimine commesso daa destra de ggerusalemme.
Che lì fosse e sia zona di guerra, naturalmente, non conta. Che la folla avesse assaltato il convoglio, nemmeno. Che qualcuno possa aver fatto fuoco – sbagliando, magari; in modo sconsiderato, magari; senza che davvero fosse necessario, magari – non per abbattere gente in coda per la pagnotta, ma per evitare che l’assalto potesse degenerare in conseguenze anche più disastrose, ancora una volta è un’ipotesi scomodamente incompatibile nel quadro di analisi delle forze politiche dell’Asse Pretoria-Sanremo: quelle che va bene tutto, ma quando è genocidio è genocidio, signori miei.
E non basta neppure. Perché oltre che moralmente abietto, oltre che concretamente contraffattorio, un simile atteggiamento, che prende una notizia di cui si sa poco e la adibisce a giustificativo di un post in stile from the river to the sea, si segnala anche per colpevoli grossolanità da pomeriggio in famiglia, da centro sociale, appunto, come la lotta al terrorismo che “non può essere fatta sulla pelle di donne, bambini e uomini inermi”, o come Netanyahu “che con la sua guerra sta portando Israele all’isolamento” (testuale, eh, mica iperbolizzato). Ed evidentemente l’analista più europoide ritiene, in larga compagnia depending on the context, di accantonare il dato forte e ineliminabile di questa immane tragedia, e cioè che a infierire sulla pelle di quei civili è la dirigenza terrorista ed è la manovalanza terrorista del pogrom del 7 ottobre, non il popolo in armi dello Stato di Israele che ha subito quel massacro e che è destinatario del progetto rivolto a continuare, e possibilmente finire perbenino, il lavoro di Adolfo Hitler.
E la guerra di cui vaneggia il provincialismo da dopolavoro Cgil di questa malridotta compagnia, la guerra che sta uccidendo i macellai del 7 ottobre e, purtroppo, anche tanti civili che quelli usano come sacchi di sabbia, non è la guerra “di Netanyahu”: è la guerra dei nonni e dei padri e delle madri e dei fratelli e delle sorelle e dei figli e dei nipoti di Israele, molti dei quali detestano di tutto cuore Bibi; è la guerra dei trecentocinquantamila ragazzi che da tutto il mondo si sono mossi per andare a combattere, a rischiare la vita per proteggere le loro case, le loro famiglie, il loro passato e l’unico loro futuro possibile, anche loro pensando tutto il male che si può pensare di questo primo ministro e del giro di potere che ha organizzato. Ma convinti, tutti questi (ciò di cui la più europeologia non ha il più vago sospetto), del fatto che c’è molto poco da scegliere mentre le piazze di mezzo mondo calendarizzano, nell’indifferenza generale, la distruzione dello Stato degli ebrei: e se si tratta di scegliere tra il fetentone a capo dell’unità nazionale che difende la vita di Israele e del suo popolo, da un lato, e il bellimbusto dell’Onu secondo cui il 7 ottobre non viene dal nulla, dall’altro lato, quelli si tengono Netanyahu da qui alla fine del mondo.
Se si tratta di scegliere tra quella che gli imbecilli, gli ignoranti, i fresconi chiamano “la guerra di Netanyahu”, da un lato, e dall’altro lato il cessate il fuoco così somigliante alla pace cantata nei cortei del filoterrorismo democratico, così somigliante alla pace disegnata sui muri stellati delle case degli ebrei, così somigliante alla pace sigillata nel proclama dello stalinista secondo cui “Israele ha perso il diritto di essere uno Stato, semmai lo ha avuto”, allora quelli scelgono tutta la vita di fare quella guerra, che è una guerra per la vita. E, se serve, ci stanno eccome in “isolamento”; ci stanno, se serve a combattere quelli che li vorrebbero isolati all’altra maniera, quella di ottant’anni fa.