Illusione collettivaIl mito di Hamas per la sinistra occidentale e la lezione dell’Iran

Negli ultimi mesi abbiamo assistito alla visione surreale di intellettuali, giovani ribelli, movimenti femministi e Lgbtq+ che inneggiano ai miliziani terroristi. Non è (solo) il pensiero woke, era già successo con Khomeini nel 1979

LaPresse

Si dice che la Storia insegni, ma tra le prerogative degli esseri umani c’è quella dell’imparare poco, talvolta niente. Così accade di ricadere in errori di valutazione grossolani, dettati spesso da un idealismo che porta all’idealizzazione irrazionale. Negli ultimi mesi abbiamo assistito alla visione surreale di intellettuali, giovani ribelli, movimenti femministi e Lgbtq+ che sfilano inneggiando ad Hamas, in una sorta di illusione collettiva che induce a considerare i terroristi islamici come liberatori. In casi come questo non c’è logica che tenga. Ci si affretta a imputare la colpa al woke, ovvero l’ideologia del risveglio delle coscienze occidentali contro le malefatte del passato: lo schiavismo, l’eurocentrismo, il colonialismo, il globalismo e tutti gli altri -ismi di cui ci siamo macchiati. Sarebbe il woke che, per contrappasso, indurrebbe all’esaltazione di ogni realtà autoctona purché non occidentale, oppure occidentalista, fino all’applauso ostentato verso i regimi più sanguinari e brutali, a condizione che siano apertamente schierati contro l’uomo bianco.

Il pensiero woke però è roba recente e non si può imputargli la responsabilità dell’idealizzazione del fondamentalismo islamico. Esiste infatti un precedente storico, verso la fine degli anni Settanta, quando l’abbaglio collettivo dei progressisti contribuì a far sì che un gruppo minoritario di fanatici che in Iran aveva poca presa sulla popolazione, s’impadronisse del movimento contro lo Shah Mohammad Reza Pahlavi. Fu l’idealizzazione del fondamentalista Ruhollah Khomeini ad agevolare lo “scippo” islamico della rivoluzione iraniana, fino all’instaurazione di un regime teocratico nel Paese più secolare, ricco e filo Occidentale del Medio Oriente. Un evento che avrebbe condotto alla diffusione del fondamentalismo islamico, con tutte le conseguenze che ne sono derivate.

«Gli intellettuali di sinistra in Occidente accostavano Khomeini a Che Guevara», ci spiega Bahram Farrokhi, iraniano, da oltre quarant’anni in Italia, oggi consigliere del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito. «Durante il suo periodo di esilio a Parigi, Khomeini era costantemente circondato da giornalisti e intellettuali di sinistra. L’elenco delle personalità del mondo occidentale che sostennero Khomeini è lungo: dai futuri premi Nobel come Gabriel García Márquez e Gunter Gross a Jean-Paul Sartre, Roger Garaudy e Michel Foucault ed Eric Rollo, che nei loro articoli paragonarono Khomeini a figure mitiche dell’Occidente». Non mancarono neanche le femministe. Farrokhi ci ricorda che perfino Simone de Beauvoir, che era a capo del Comitato internazionale per la difesa dei diritti delle donne, inviò in Iran una delegazione di femministe.

Molti, tra gli intellettuali citati, appartenevano all’ala marxista e dunque non dovrebbe sorprendere la loro idealizzazione di Khomeini che — dal suo esilio parigino — in opposizione alla decadenza capitalista, promuoveva l’idea di una società di stampo marxista, la cui etica attingeva principi dell’Islam. I marxisti che si erano distanziati dall’Unione sovietica dopo la repressione della primavera di Praga, apprezzavano questa nuova visione del comunismo: una antimaterialista e spirituale, libera dal controllo del politburo.

Per i liberali americani invece, che temevano l’espansione del comunismo, l’Islam appariva come una difesa. D’altra parte, le mire  dell’Unione Sovietica verso Iran e Afghanistan (che avrebbe invaso di lì a breve) non erano un segreto, né lo Shah era ignaro che molti gruppi armati presenti nel Paese fossero sovvenzionati dai sovietici. Ma se Jimmy Carter non vedeva negativamente la crisi dell’establishment di Reza Pahlavi, e Leonid Brezhnev faceva di tutto per fomentare il dissenso, nessuna delle due superpotenze auspicava un cambio di regime. L’Iran era una frontiera tra due mondi in piena guerra fredda. «Probabilmente entrambi, anche se per motivi diversi, ambivano ad uno Shah debole, facilmente soggetto a pressioni, non certo ad un imprevedibile regime islamico», spiega Farrokhi.

A quel tempo, i seguaci di Khomeini erano solo una delle tante forze in campo durante i tumulti che portarono alla rivoluzione. Nulla avrebbe lasciato presagire che sarebbero stati loro a prendere il potere. Dalle parole di Farrokhi deduciamo che, in un certo senso, furono proprio i giornalisti e gli intellettuali occidentali, attraverso l’idealizzazione del personaggio, a fare da cassa di risonanza mediatica a Khomeini e a renderlo popolare anche in patria fino a far precipitare l’Iran negli anni più cupi della propria storia. «Quest’uomo, che inizialmente doveva essere il liberatore dal regime fantoccio dello Shah» ha invece provocato decenni di instabilità e conflitti sanguinosi nel Medio Oriente.

Riflettendo sul passato per cercare connessioni con il presente, chiediamo a Farrokhi come avevano potuto tanti intellettuali cadere in quel tranello. «Perché gli occidentali gli credevano. Non conoscevano il kitmān, che per un musulmano è il permesso di mentire, o dire solo una parte della verità, nell’interesse dell’Islam». In sostanza, Khomeini esponeva un modello di società a cui gli altri volevano credere celando quello a cui ambiva. È su quel «voler credere» che risiede l’abbaglio. Gli intellettuali volevano vedere in Khomeini il simbolo della lotta contro l’oppressore; colui che avrebbe liberato il popolo iraniano dalla tirannia. Anche davanti al sommo promotore della Sharia, le femministe vedevano in lui un difensore dei diritti delle donne e credevano ciecamente ad ogni sua menzogna.

In modo non dissimile oggi assistiamo all’illusione collettiva di chi — contro ogni evidenza — «vuole credere»: che Hamas agisca nell’interesse del popolo palestinese liberandolo dalla “tirannia” d’Israele. Da Greta Thunberg agli studenti dei campus universitari, dai rettori americani a quelli nostrani non si parla di terroristi ma di “resistenza” di “forze di liberazione”. Poco importa che Hamas, a differenza di Khomeini, non si preoccupi neanche di rifugiarsi nel kitmān e dichiari apertamente di ambire al califfato, l’idealizzazione — sospinta dal rifiuto dei valori occidentali — conduce alla fiducia incondizionata che nella società auspicata da Hamas i palestinesi saranno più liberi e felici. La storia dell’Iran è un monito contro questa illusione.

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