Non ci resta che piangereLa pornografia della vulnerabità, e altre lagne con telecamera

Le donne forti non si portano più, nemmeno quelle di un’altra epoca come Golda Meir e Margaret Thatcher che per il subfemminismo di questa epoca, per il solo fatto che spignattavano, sarebbero considerate vittime del patriarcato

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Com’è fatta una donna forte? Siamo ancora in grado di riconoscerla, se la incontriamo? In “Golda”, film sulla guerra dello Yom Kippur che non ho capito quando uscirà in Italia, Golda Meir riceve a casa i generali: loro portano i piani di battaglia, lei ha preparato la torta e versa il caffè. In un’altra scena, costringe Henry Kissinger a mangiare il borscht con uno zelo da madre meridionale.

Nella stagione di “The Crown” ambientata negli anni Ottanta, Margaret Thatcher cucinava per i ministri. Le guardo e penso alle possibili reazioni del subfemminismo di questo secolo di fronte a queste scene grandemente realistiche: la Thatcher aveva ventisette anni meno della Meir, ma erano entrambe donne nate in un’epoca in cui alle donne non era dato di non cucinare.

In un film che uscì quando avevo undici anni, e ambientato nella stessa Europa dell’Est e negli stessi anni in cui nacque Golda Meir, Barbra Streisand, morto il padre che lasciava che leggesse e studiasse come un uomo, si travestiva da uomo per avere finalmente la possibilità di fuggire dal villaggio e studiare da rabbino. Ma, finché era vivo il padre che le era grandemente complice, aveva comunque continuato a cucinare.

Il subfemminismo di questo secolo, di fronte a Golda e a Margaret che spignattano, direbbe che sono scene scritte da sceneggiatori patriarcali che vogliono rimandare le donne in cucina; oppure direbbe ecco, lo vedi, anche quando sei a capo d’un paese devi sobbarcarti il lavoro di cura. E quindi la domanda è: se l’unica cosa che sappiamo fare con le donne è vittimizzarle, che ne sarà delle donne forti? Si estingueranno pur di continuare a garantire un reddito di scemenza alle pensatrici di Instagram?

A un certo punto di “The Regime”, la dittatrice s’innamora del soldato più zotico e con cui sin da subito ha stabilito un rapporto di forza: «Tu sei qui perché non sei nessuno, e puoi dirmi cosa vogliono i nessuno» (è peraltro un’ottima sintesi del rapporto delle influencer coi follower; come diceva quel film, «è Napoleone che ha scelto le moltitudini o sono le moltitudini che hanno scelto Napoleone?»).

Se ne innamora perché lui, che ha un’intelligenza delle cose, le dice che gli altri la vogliono indebolire facendola sentire fragile, ma lei è fortissima. Improvvisamente, le paturnie che la infelicitavano, l’ipocondria, la paranoia per la muffa, le malattie immaginarie: tutto le passa. Se le parole creano le cose, più importante dell’uso degli asterischi mi sembra sia chiedersi: se nessuno dice mai che sei forte, come fai a diventarlo?

Certo, quello di Kate Winslet è il personaggio d’una psicopatica, che pare ormai sia una delle due variabili possibili di donna forte sullo schermo: o donna in costume d’epoca (d’un’epoca in cui le donne potevano concedersi il lusso d’essere forti), o psicopatica sanguinaria. Tempo fa ho avuto una discussione con un tizio che sosteneva che Amazing Amy – la protagonista di “Gone Girl”, quella che inscena la propria morte per mandare al patibolo un marito irritante – non era affatto una psicopatica. Non riconosciamo le psicopatiche, figurarsi le donne forti.

(Lo zotico è fissato coi rimedi naturali, e dice che al bambino epilettico bastano le patate, non servono le medicine. La cancelliera compiaciuta dice alla governante hai visto, non ha più crisi, non servivano. Lei le dà ragione, e continua regolarmente a dargli le medicine di nascosto. Forse una donna forte la riconosci perché, proprio come accade con gli uomini di potere, nessuno ne contraddice apertamente gli ordini imbecilli).

In una conferenza stampa di Sanremo, c’è stato un illuminante dialogo tra Teresa Mannino e una giornalista. Quella le ha detto illudendosi di farla lagnare «sei stata poco valorizzata dalla televisione», Mannino ha chiesto «cosa intendi con poco valorizzata?», la giornalista poco abituata a donne che contestano i cliché che le vittimizzano ha corretto: «Che ti avremmo voluto vedere di più».

A quel punto Mannino ha servito con grande disinvoltura la risposta più femminista dell’intero festival: «Che è un’altra cosa, è un desiderio tuo. È il “poco valorizzata” che secondo me non ha senso, perché in realtà non è che io non faccio la televisione perché nessuno mi vuole o perché c’è qualche cosa strana sotto: è perché in questo momento preferisco fare altro che è il teatro, non è una cattiveria oppure una mancanza di capacità di intuire un talento da parte di qualcuno, è semplicemente un desiderio mio di fare altro».

Non è che non mi vogliono. Non è che mi censurano. Non è che le altre sono raccomandate. Non è che ci sono le conventicole. Non è che io tapina saprei come risollevare il varietà ma il mio genio è incompreso. Non è che devo sobbarcarmi il lavoro di cura e caricare la lavatrice mi toglie le possibilità di carriera. Non è che non ho l’agente giusto. Non è che ho Marte in Scorpione. Non è che sono me stessa mestessamente. È che ho fatto delle scelte professionali che non sono quelle che paiono giuste a te, quelle dalle quali vuoi dirmi esclusa da altri te, e dalle quali invece mi sono astenuta volontariamente io. La cosa più sovversiva che si possa fare nel secolo del subfemminismo è dire: sto benone, non ho niente di cui lamentarmi.

Naturalmente il discorso della Mannino non l’ha ripreso nessuno, e non perché c’è un complotto per mostrare solo donne deboli e far quindi crescere con modelli piagnoni le donne di domani, un complotto del patriarcato, in combutta con quelle che fatturano strepitando contro il patriarcato, per eliminare dal panorama qualunque pacato ragionamento di donna sufficientemente forte da non aver bisogno di strepitare.

È perché la sensatezza non fa grandi clic. Non quanti ne fa l’emotività, il sentimentalismo, il melodramma, il dirsi fragili, il dare la colpa agli altri, e soprattutto il format del secolo: accendere la telecamera del telefono, e piangere.

Una delle ultime a farlo (nel frattempo ce ne saranno state altre cento) è stata una tal Clio, credo truccatrice ma vai a sapere questa gente che di mestiere accende la telecamera del telefono che specificità professionali abbia fuori dai monologhi dolenti. Clio ha tre milioni e mezzo di follower, e tra le altre cose ha sponsorizzato delle uova di Pasqua di beneficenza con l’esatto modello di business impiegato da un’altra tizia dell’Instagram un po’ più famosa e di cui domenica si parlava un po’ di più.

Abbiamo quindi dovuto aspettare lunedì perché i giornali si accorgessero che domenica mattina, mentre Chiara si preparava per andare da Fazio, Clio accendeva il telefono e piangeva.

O meglio, accendeva il telefono e apriva il box domande, l’espediente preferito dell’Instagram quando si vuole dire ciò che si vuole, ma illudendo le moltitudini che siano le loro curiosità ad aver indotto alla sincerità Napoleone.

A una domanda neutra, «come fai ad essere sempre così solare», la nostra eroina del femminismo debole si aggancia per iniziare a lacrimare e dire «semplice, cerco di non mettere cose così [indicandosi le lacrime] anche quando c’ho i momenti di merda tipo adesso».

Giuro che prosegue dicendo «sono un po’ triste però cerco di non farlo vedere», mentre piange davanti alla telecamera accesa. Dopodiché risponde a una domanda sulla dieta, sì è dimagrita ma «che ironia» che le diciate che la vediate meglio, considerato che non so se avete notato che sta piangendo ormai da quattro video (a un certo punto cambia pettinatura, ma piangere piange sempre).

Ai giornali non pare vero legare i video di Clio all’intervista alla Ferragni: c’è forse una crisi emotiva collettiva delle influencer? Considerato che metà della roba pubblicata dai giornali italiani ormai viene dai social, mi stupisce sempre quanta poca consuetudine chi li scrive abbia col mezzo.

Il format «accendo la telecamera e le piango dentro» non è né una novità né un’esclusiva di chi fuori da Instagram non ha un mestiere. Vado a memoria da quando ne avevo raccolte un po’ per un libro sui social: hanno pianto dopo essersi accuratamente inquadrate Paulina Porizkova e Bella Hadid, Matilda De Angelis e Sydney Sweeney, Britney Spears e Drew Barrymore e chissà quante altre. La Barrymore si fotografa in lacrime nel dicembre del 2018: in termini di fenomeni social, un paio d’ere geologiche fa.

Il Los Angeles Times, che del fenomeno scrisse nel 2021, lo definì l’ennesima forma di pornografia della vulnerabilità o di – come non amare la plasticità dell’inglese – sadfishing. Le donne forti non vengono riconosciute al test genetico di femminilità: non ci resta che piangere, per risultare seduttive.

Il che, mi perdonerete se lo cito sempre ma è la mia fissazione del momento, mi ricorda un dialogo tra Jennifer Lopez e Ben Affleck in “The greatest love story never told”. Lei gli sta spiegando cosa significhi «thirsty», che letteralmente è «assetata» ma in gergo instagrammatico è colei che cerca disperatamente di portare a casa i cuoricini (proporrei di tradurre con: smaniosa).

Lei dice qualcosa tipo «è quando posi sempre tutta ammiccante e mezza nuda», e lui le dà una risposta per la quale una donna meno forte di lei correrebbe dall’Instagram subfemminista a lamentarsi della sua relazione tossica. Le dice: come te! Lei ride con una forza così tranquilla che per un attimo sembrano Henry e Golda.

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