Il congresso del Partito Popolare europeo si è concluso con la ricandidatura di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea. I Popolari hanno frenato sul Green Deal, nonostante l’avessero votato insieme con i socialisti, i Liberali e i Verdi. Hanno sposato il “modello Uganda” della Gran Bretagna sui centri di accoglienza e di identificazione dei migranti fuori dai confini comunitari. Nulla è stato detto su come finanziare l’impegno militare per difendere l’Ucraina né sulla necessità di fare debito comune. La Germania di von der Leyen e di Manfred Weber è la prima a non volerne parlare. La presidente della Commissione ha giustamente ricordato che l’Europa unita è capace di spostare le montagne, quando vuole, come è stato fatto durante l’emergenza Covid. Dimenticando però di aggiungere che il Next Generation Eu, e il conseguente Recovery Fund, sono stati alimentati dagli eurobond.
L’accusa a Vladimir Putin («lo attende un’aula di tribunale all’Aja», ha ben detto von der Leyen) e la conferma di ogni sforzo per Kyjiv manca di prospettiva. Prima del voto del 9 giugno, il Ppe a trazione tedesca tace sulla necessità di un nuovo sforzo finanziario contro Mosca. Tacciono pure i Socialisti perché in campagna elettorale certe cose non si possono dire: si rischia di perdere voti. È, in sostanza, quella che Emmanuel Macron definisce «meschinità». È un mix di pavidità e di paura di fronte alle destre populiste e filoputiniane.
È un bipolarismo meschino, e soprattutto ipocrita, quello dei Popolari perché hanno ribadito che mai e poi mai verranno aperte le porte alla destra. Weber e Antonio Tajani hanno fatto riferimento diretto ad Alternative für Deutschland e a Marine Le Pen. Nessuno, ieri al congresso di Bucarest, ha fatto cenno alla Lega, l’alleato di Fratelli d’Italia e di Forza Italia, un partito che fa parte dello stesso gruppo europeo di estrema destra Identità e Democrazia. Non è stato nemmeno esplicitato che con Giorgia Meloni c’è un patto per portare i Conservatori europei in una nuova maggioranza che non potrà prescindere da Socialisti, Liberali e macroniani. Eppure proprio ieri sono stati gli stessi Socialisti a ricordare che il loro voto a favore di von der Leyen non è scontato, proprio per la virata a destra dei Popolari.
Sicuramente, almeno a parole, il voto non glielo daranno neanche gli eurodeputati leghisti. Ieri la Lega è ritornata a lanciare un fendente micidiale alla «sciagurata» Commissione europea e alla sua presidente. Accusando la “maggioranza Ursula” di avere distrutto l’Europa, di non avere fatto nulla per contrastare l’immigrazione clandestina, di avere rovinato gli agricoltori italiani e anche gli operai a favore della Cina e delle sue macchine elettriche. Un armamentario propagandistico, in cui non mancano mai la farina di insetti e il cibo sintetico, che potrebbe non reggere quando Meloni convolerà a “nozze” con i Popolari. Perché questo succederà dopo le elezioni Europee, circostanza confermata nei pourparler a margine del congresso dei Popolari a Bucarest.
Matteo Salvini tuona contro l’inciucio, ma in quell’inciucio potrebbe entrare, anzi ci entrerà di sicuro nella parte governativa. Il governo italiano infatti dovrà indicare il suo commissario Ue. È chiaro che Meloni dovrà discuterne con il suo vicepremier Salvini, e anche con l’altro vicepremier Tajani. Il quale, guarda caso, ieri, sempre a Bucarest, non ha escluso che il commissario possa essere Raffaele Fitto, il ministro che tiene la borsa con i soldi europei del Pnrr. Un altro commissario possibile è Giancarlo Giorgetti, ma il ministro dell’Economia è un leghista non ortodosso, quindi non gradito a Salvini.
Insomma, le tattiche elettorali a livello continentale e le divergenze nel centrodestra italiano non riescono a nascondere il bipolarismo meschino e ipocrita che avanza in questa esiziale elezione europea.