Piantare alberi nelle zone sbagliate fa più male che bene al clima del nostro Pianeta. Lo sostengono gli scienziati della Clark University (Usa) e dell’Università Eth di Zurigo nello studio “Accounting for albedo change to identify climate-positive tree cover restoration”, uscito a fine marzo su Nature Communication e redatto in collaborazione con gli esperti dell’agenzia governativa australiana per la ricerca Csiro e dell’organizzazione no profit The Nature Conservancy.
La ricerca si inserisce in un dibattito aperto: quello sul ruolo della piantumazione di nuovi alberi nella lotta al riscaldamento globale. Nel farlo porta elementi inediti, sistematizzando per la prima volta l’impatto del fenomeno chiamato albedo. In parole povere, questa parola indica il potere riflettente di una superficie. Introdurre nuovi alberi riduce l’albedo e la quantità di luce solare che viene riflessa, mettendo quindi la superficie terrestre nelle condizioni di assorbire più calore, riscaldandosi. Questo meccanismo rende controproducente piantare alberi in tutte quelle zone in cui la relazione tra capacità di assorbimento di carbonio delle nuove piantumazioni e la riduzione dell’albedo porta a un bilancio svantaggioso.
Non solo: prendendo in considerazione questo nuovo dato come proposto nello studio, anche il possibile contributo delle aree più adatte alla forestazione alla mitigazione del cambiamento climatico è stato ridimensionato del venti per cento rispetto alle stime accettate dalla comunità scientifica. Nella mappa in basso, gli scienziati hanno evidenziato i luoghi dove la forestazione è comunque consigliata (ambienti tropicali e alcune zone temperate) e dove invece non lo è (praterie e savane).
La sottostima del ruolo dell’albedo è solo uno degli ostacoli nascosti che riducono l’efficacia dei progetti di forestazione. Eppure, poche azioni “per l’ambiente” sono tanto popolari: «Piantare alberi per assorbire CO₂ e così mitigare l’impatto del riscaldamento globale è un’idea che piace a tutti», dichiara a Linkiesta Luigi Torreggiani, dottore forestale, giornalista e divulgatore per Compagnia delle Foreste. La forestazione, continua l’esperto, «è facile da raccontare e facile da capire. Ed è una storia bellissima: una “macchina perfetta” creata dalla natura, l’albero, ci salverà dall’autodistruzione. Questa narrazione, molto semplicistica in realtà, è assai pericolosa, perché si presta a essere un’arma perfetta per un greenwashing collettivo. Certo, piantare alberi è una buona idea e dovremo continuare a farlo, molto più di ora, per migliorare l’ambiente, gli ecosistemi e anche la nostra salute. Ma non bisogna pensare che siano la soluzione magica per la crisi climatica. Perché i problemi, in realtà, sono tanti».
Proviamo a individuarne cinque, i principali. Innanzitutto, gli alberi non bastano. «Gli studi più recenti – prosegue Torreggiani – hanno dimostrato come una massiccia opera di piantagione, svolta correttamente in tutto il mondo, potrebbe permetterci un assorbimento “extra” dal due all’otto per cento delle emissioni annue dovute all’uso di combustibili fossili». È lo stesso ordine di grandezza utilizzato dall’Ipcc (Intergovernmental panel on climate change): una percentuale significativa, ma non certo sufficiente a risolvere, da sola, il riscaldamento globale.
In secondo luogo, bisogna piantare l’albero giusto al posto giusto, in un’epoca in cui i terreni disponibili non sono molti e vengono contesi con le attività agricole. La specie scelta, soprattutto, deve essere adatta alle condizioni meteorologiche e climatiche del luogo in cui viene inserita. Piantare alberi che presentano un buon tasso di assorbimento di CO₂, una crescita veloce o una gestione facile – come avviene talvolta nelle grandi città – ma che non sono fatti per sopravvivere o raggiungere grandi dimensioni in un determinato ambiente porta, nella maggior parte dei casi, al fallimento.
A questo si collega il terzo punto: l’importanza di una gestione scientifica. Servono tecnici in grado di seguire i progetti per anni e di individuare i metodi di coltivazione migliori, tenendo al contempo presente la sostenibilità del progetto a livello di consumi d’acqua e di risorse. Oggi proprio lo scarso controllo sullo stato di salute delle piantumazioni sul lungo periodo è un punto debole di molte azioni di forestazione, attivate magari in Paesi lontani da quelli dei finanziatori. Su Euronews qualche anno fa era stata pubblicata per questo una lista di domande da farsi prima di sostenere un progetto privato: da «Chi pianterà gli alberi? dipendenti specializzati, comunità locali, volontari?» fino a «Ci sarà modo di monitorare lo stato delle piante in futuro?».
Un altro concetto che non sempre viene preso in considerazione è il fatto che le piante sono organismi viventi, non strumenti dalle performance rigide. Quando si calcola la capacità di assorbimento di un certo numero di alberi, si pensa ad esemplari standard: ma le condizioni ambientali, le malattie e l’età delle piante influiscono sulle loro “abilità”. Precisa ancora Torreggiani: «gli alberi non sono casseforti di CO₂: si possono ammalare e possono bruciare. In questi casi la CO₂ assorbita viene reimmessa in atmosfera».
Il quinto ed ultimo punto è tra i più dimenticati. Al di là del conteggio delle emissioni riassorbite, c’è una profonda differenza ecologica tra un bosco e un gruppo di alberi, così come tra una vera opera di rinaturazione e una semplice forestazione. Sono necessari infatti tempi dilatati e interventi mirati perché la biodiversità ripopoli un’area piantumata, e c’è il rischio che forestazioni avviate nei luoghi sbagliati portino addirittura ad un impoverimento dell’ambiente, con conseguenze negative sulla capacità di adattamento di flora e fauna al cambiamento climatico. Questo pericolo è serio quando entrano in gioco gli interessi dell’industria del legname, come denunciato ad esempio da Greenpeace nel 2020 con il report “Planting tree farms: no panacea for climate crisis”.
Nonostante tutti questi elementi critici, superabili solo con una progettazione molto attenta, la spinta comunicativa sulla forestazione come soluzione immediata continua, sui giornali e nelle pubblicità. Ecco un esempio recente: il 28 marzo è stato pubblicato su Repubblica un articolo firmato dal botanico, docente universitario e saggista Stefano Mancuso. Nel pezzo si presentavano i risultati di uno studio, curato tra gli altri dallo stesso Mancuso e uscito su Nature Cities, in cui attraverso dati satellitari si stimava quanti alberi sia possibile piantare in aree “libere” vicine ai centri urbani (aree periurbane), in tutto il mondo. A far discutere, oltre alla scala vastissima e quindi poco precisa a cui è stato condotto lo studio, è stato il titolo dell’articolo: “Cento miliardi di alberi intorno alle nostre città. Così salveremo la Terra dalla crisi climatica”.
È evidente come si tratti di una semplificazione. Secondo Francesco Ferrini, professore di Arboricoltura generale e Coltivazioni arboree dell’Università di Firenze, data l’urgenza degli obiettivi europei e globali sul clima bisognerebbe iniziare ad affrontare il tema in modo più realistico, anche a livello divulgativo. «Oggi è necessario mettere in luce le difficoltà e le sfide reali che si presentano nella “messa a terra” dei progetti. Dobbiamo adottare un approccio bilanciato ed estremamente razionale – spiega – riconoscendo la necessità di un impegno a lungo termine e coordinato per tradurre gli ideali ambientali in azioni concrete e significative. E dobbiamo anche concentrarci sulla gestione più efficiente dei circa tremila miliardi di alberi già presenti, in modo da massimizzare il loro contributo nel mitigare gli effetti del cambiamento climatico e adattarci a esso».
Attribuire un potere esagerato alla piantumazione rischia al contrario di aprire la strada a campagne di marketing fumose, in cui qualunque impatto ambientale sembra poter essere compensato da migliaia o milioni di nuovi alberi, e in cui le capacità di assorbimento di CO₂ di altri ambienti (come le torbiere o le zone umide) non vengono valorizzate. «La realtà è intricata – conclude Ferrini – e richiede approcci altrettanto complessi. Seguire scorciatoie senza una conoscenza dettagliata del territorio può spesso portare a risultati deludenti o addirittura a smarrirsi nel processo».