I don’t like povertyGli anniversari delle cose belle ci ricordano quanto siamo diventati vecchi

Ero a teatro a vedere “Just for one day” e mi sono resa conto che tra poco saranno quarant’anni da “Do they know it’s Christmas?”, e poi dal Live Aid. Cioè la stessa distanza temporale che allora ci separava dalla seconda guerra mondiale

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Iniziate a prepararvi, voialtri di altre età che già trovate insopportabile la mia generazione, quella che ha inventato la nostalgia, perché a Natale di quest’anno saremo particolarmente intollerabili con le nostre celebrazioni, i nostri «eh, com’era verde la mia valle», il nostro struggerci per gli anni in cui ci si vestiva malissimo e ci si divertiva tantissimo.

A Natale di quest’anno saranno quarant’anni da “Do they know it’s Christmas?”, il che significa che l’estate del 2025 compie quarant’anni il Live Aid. Me ne sono resa conto all’improvviso mentre ero a teatro, a Londra, a vedere “Just for one day”, un musical sul Live Aid che non saprei dire se mi sia piaciuto o no, ma tanto ormai l’hanno smontato e mica devo decidere se consigliarvelo; uno spettacolo che aveva dentro una ragazza giovane che chiedeva a Geldof cose come «cos’è questa?», indicando una musicassetta.

Era un trucco inutile, giacché in platea c’eravamo solo noi vegliarde che volevamo fare il karaoke con le canzoni di quand’eravamo piccole, ma è un trucco che mi ha fatto notare una cosa alla quale non avevo ancora pensato. Tra noi e “Do they know it’s Christmas?” c’è la stessa distanza temporale che c’era tra gli Spandau Ballet e i Duran Duran che incidevano una canzone di beneficenza, e il bombardamento di Iwo Jima.

La ragazzina che non sa cosa sia una cassetta sembra un’esagerazione, ma in effetti sono passati quarant’anni. Io sapevo cosa fosse il rosolio perché lo sentivo nominare a mia nonna, avevo visto un grammofono perché ce n’era uno a casa dell’altra mia nonna, ma mica facevano parte della mia vita. Un walkman, per la tredicenne di oggi, è storia antica quanto lo era il cinema muto per me.

Così come è inimmaginabile oggi una buona causa che coinvolga tutti, che faccia miliardi di spettatori, milioni di dischi venduti, la Thatcher che riceve Geldof (senza gara la cosa migliore dello spettacolo, il duetto in cui lui la chiamava Mrs T e lei rispondeva «Mr G»). Inconcepibile, oggi che la frammentazione delle piattaforme è niente in confronto a quella delle buone cause, e qualunque porocristo tenti di dire qualcosa sulla buona causa sua viene sommerso dagli «e perché non hai parlato di questo», «e perché trascuri quello» (in inglese «whataboutism», che è benaltrismo ma non proprio).

Quando fecero il Live Aid io avevo dodici anni, e c’era un altro di quei problemi inspiegabili ai nati di questo secolo: nelle case al mare i televisori prendevano male il segnale. E gli adulti non capivano il mio dramma del non poter vedere gli Spandau Ballet e Madonna. Oggi gli adulti chiederebbero elezioni anticipate se i puccettoni loro non potessero guardare il programma che vogliono; anzi, scusate: oggi gli adulti sarebbero i primi a voler vedere il concerto di beneficenza, diamine.

A un certo punto di “Just for one day” una vegliarda dice che non ci si poteva sottrarre al Live Aid, era su tutte e quattro le reti televisive, e la ragazzina sul palco trasecola per i miseri quattro canali degli inglesi degli anni Ottanta, e io quasi mi metto a piangere pensando alla me stessa al mare, pensando a un’epoca in cui Phil Collins poteva prendere il Concorde e suonare in mondovisione prima a Londra e poi a Philadelphia, e sull’Adriatico non si riusciva a far prendere Rai3.

Ma parliamo del momento dello spettacolo in cui ho pianto davvero, inarrestabilmente, e dei numerosi interrogativi che ho a riguardo. Bob Geldof, probabilmente lo sapete, è famoso per una sola canzone, “I don’t like Mondays”. Se non avessi in uggia i giochi di parole, direi che è una bomba di canzone, e sappiamo che avere una canzone di cui non sei all’altezza può distruggerti, e se a fare di Bob Geldof un cantante senza carriera sia stata l’enormità di quella canzone o la distrazione della sua carriera di salvatore degli africani dalla fame non saprei dirlo.

Fatto sta che “I don’t like Mondays” è la più pazzesca canzone del Novecento che io non abbia sentito nel Novecento. Perché l’informazione non era così pervasiva e io, nel Novecento, di Bob Geldof avevo visto solo le foto del matrimonio con Paula Yates. Erano spettacolari, lei era vestita di rosso, tra i testimoni c’era gente come i Duran Duran e Sting, le pubblicò Moda, il più bel giornale che questo derelitto paese abbia mai avuto, e però neanche quelle bastarono a farmi dire ma forse dovrei recuperare la discografia di ’sto tizio.

Sono abbastanza certa di aver sentito “I don’t like Mondays” per la prima volta nella cover molle di Tori Amos che stava in una scena straziantissima in una puntata del 2002 di “West Wing”. E di averla sentita fatta da lui, da Bob Geldof, per la prima volta al Live 8, quand’eravamo vent’anni più vecchi.

E quindi non ha senso che io pianga come una vitella ogni volta che parte “I don’t like Mondays”, pure se fatta dall’attore che fa Geldof a teatro (e della cui panza Popbitch ha riferito che sir Bob si sia lamentato: lui ci tiene a essere un figurino). Direi che sto piangendo i miei dodici anni, ma sono abbastanza sicura di non essere riuscita a sentirla, quel pomeriggio: cercavo disperatamente di sintonizzare il canale solo per vedere quelli che sapevo, mica quello sconosciuto.

Forse piango i miei trentadue, quando i giornali avevano soldi da buttare per coprire d’oro le stronze come me acciocché andassero in giro per il mondo a raccontare irrilevanze quali: è uscito il cofanetto di dvd del Live Aid, alla conferenza stampa Bob Geldof è vent’anni più vecchio, continua a non pettinarsi, ma si veste molto meglio di vent’anni fa.

Adesso che c’è YouTube e possiamo vedere tutto dal divano, il Geldof dell’85 fa struggere di nostalgia soprattutto per quell’indossare una cosa a caso, la gente vestita a caso oggi non la vedi più da nessuna parte, persino per strada sperano tutti d’incontrare Sartorialist, figurarsi se possono pensare di vestirsi a caso su un palco. (La miglior battuta di “Just for one day” è «Cool’s overrated: give me fun everyday», e non è una battuta sugli stylist, ma è come se lo fosse).

Per la mutazione sartoriale non serve andare quarant’anni indietro: il Mahmood di “Soldi”, al Sanremo di cinque anni fa con una camicetta qualunque, non sembra neanche parente di quello di adesso, del quale noti gli stylist molto prima delle canzoni. È cambiato il mondo, mica è cambiato Geldof. Per la contabilità della mutazione sloganistica, annoto che passarono tredici anni tra Geldof che al Live 8 prometteva di «make poverty history», e Di Maio che nel 2018 diceva di aver abolito la povertà.

I cinque anni di Mahmood, i tredici di Di Maio, i quasi quaranta dell’idea di sir Bob: tutto cambia, tutto passa, tutto si rimpiazza. Che il mondo di oggi non sia più quello della Thatcher e delle musicassette, di Madonna conciata come una scappata di casa e dei bambini che non possono vedere i concerti alla tele, quello è evidente alla ragazzina che sul palco dice «Ho studiato gli anni Ottanta in storia», e a me che in platea mi rendo improvvisamente conto che gli anni trascorsi tra il Live Aid e oggi – e quindi: tra la me di allora e la me di oggi – sono gli stessi che, nell’anno del Live Aid, ci separavano dalla seconda guerra mondiale. E ora scusate, vado a mettere la dentiera nel bicchiere.

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