Dunque in Gran Bretagna si voterà il 4 luglio e quella del leader laburista Keir Starmer è la vittoria più annunciata del mondo, almeno secondo i sondaggi. Non si vede cosa possa arrestare il vento che soffia nelle vele del Labour party, che dopo quattordici anni dovrebbe proprio tornare al governo di un Regno Unito molto malmesso – dopo l’era orribile di Boris Johnson che il suo blando successore Rishi Sunak non ha saputo archiviare.
Elezioni anticipate dunque: Sunak si è arreso con le mani alzate. Per conoscere la situazione inglese si consiglia di leggere l’articolo di Miriam Tagini qui su Linkiesta del 13 gennaio, già era chiaro il fallimento di Suniak e l’avvento di Starmer, del quale va messo in evidenza un punto politico forte che egli ha in comune con la grande stagione laburista di Tony Blair. E cioè l’assillo di fare del Labour un autentico partito della Nazione, un termine in voga nei primi anni Duemila quando si trattava di dar vita al Partito democratico e poi ripreso qualche anno dopo da Matteo Renzi che ne era il leader. Un partito cioè in grado di rappresentare e di comporre interessi sociali e territoriali diversi (su quest’ultimo punto è significativo che il Labour possa diventare il primo partito in Scozia, per dire) puntando soprattutto a un obiettivo che alla sinistra italiana di oggi non entra in testa: la produttività, premessa della crescita.
«Lo scopo principale del prossimo governo laburista, la missione che sta al di sopra di tutte le altre, sarà quella di far aumentare la crescita della produttività della Gran Bretagna», disse con chiarezza Starmer. Un discorso fondamentale per realizzare la classica operazione blairiana: andare a prendere i voti dall’altra parte. Che è un’altra cosa che l’attuale gruppo dirigente del Partito democratico non ha proprio nelle sue corde, fissato com’è sulla necessità di pescare consensi a sinistra, con il che, al massimo, si può ottenere un riequilibrio dentro il proprio campo ma facendo il solletico all’avversario.
Non può sfuggire dunque che la sinistra tornerebbe a vincere sotto il segno del riformismo liberale di Tony Blair magari più attento allo stato sociale (la sanità in primis) ma comunque privo di qualunque striatura estremista o populista, invece ben presenti nel Psoe di Pedro Sánchez e in una buona misura nello stesso Partito democratico di Elly Schlein.
Starmer è più concreto della leader dem, non ha retaggi ideologici né posture movimentiste. È più vicino a Emmanuel Macron, con il quale ricostruirà un rapporto positivo, che a Jean-Luc Mélenchon che tanto piace a gran parte della sinistra italiana.
Ed infine è più netto in politica estera per lo meno sull’appoggio alla Resistenza ucraina e anche su Israele (la campagna contro l’antisemitismo nel Labour ha colpito duramente Jeremy Corbyn, alfiere di una sinistra primitiva). Per capirci, non ci sarebbe posto nelle liste del Labour per Marco Tarquinio e Cecilia Strada. E forse anche per questo vincerà.