The dream shotIl canestro più incredibile nella storia delle finali Nba

Undici anni fa Ray Allen, con la canotta dei Miami Heat, ha segnato la tripla che ha mandato gara-6 all’overtime al termine di un’azione confusa e carica di tensione. Il racconto di quel singolo gesto, ormai uno dei momenti più iconici e memorabili del basket americano, è stato raccontato da Alessandro Mamoli, telecronista di Sky Sport Nba, in “Dream Games” (Rizzoli)

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Miami, American Airlines Arena, 18 giugno 2013, gara 6 delle finali NBA.

Spurs 95-Heat 92. Miami ha però finito i time out e deve ripartire con la rimessa da fondo campo. Ray Allen consegna la palla a Mario Chalmers, che una volta superata la linea di metà campo si scambia la posizione con LeBron James per invitare la difesa al cambio. Tony Parker per un attimo perde i riferimenti di ciò che sta accadendo, non capisce chi marcare e scivola, anche se solo per un istante. Nel frattempo LeBron si sta nascondendo dietro un blocco di Bosh fatto apposta per liberarlo e fargli prendere un tiro da tre punti. Complice la distrazione di Parker, l’esecuzione dell’azione è perfetta. LeBron si ritrova ancora una volta con la palla in mano sul lato sinistro del campo, dove dieci secondi prima aveva realizzato la tripla del -2. Ha spazio, pure troppo. Il primo ad accorgersene è Boris Diaw, che molla immediatamente Chris Bosh e cerca di ostacolare il tiro con il braccio alzato. Per la seconda volta nello spazio di pochi secondi Gregg Popovich ha scelto di non schierare Tim Duncan in difesa. Lo ha sostituito subito dopo la rimessa. Vuole il solito quintetto rapido per cambiare su tutti i blocchi, da un punto di vista tattico è la scelta giusta, ma così gli Spurs sono nettamente inferiori a rimbalzo. Non importa, gli Heat hanno bisogno di 3 punti, serve pressione sul perimetro. In più l’unico corpo adatto a contrastare i centimetri di Chris Bosh, quello di Boris Diaw, si trova a sette metri dal canestro dopo il suo disperato tentativo di close out su LeBron, che risulta però efficace perché il tiro del Re finisce ancora sul ferro.

Sulla palla si avventano in tre: Ginobili, Danny Green e proprio Chris Bosh. Per una frazione di secondo anche Ray Allen sta pensando di andare a lottare nella mischia, ma la presenza di Bosh lo porta a rinunciare. Gli bastano pochi attimi per capire che quel rimbalzo non è né di Ginobili né tantomeno di Danny Green. Quel rimbalzo lo ha preso Chris Bosh che, con una lucidità sorprendente per un giocatore al quarantottesimo minuto di una gara 6 di finale, osserva il movimento di Ray Allen che fa l’unica cosa coerente con il momento della partita. Cerca il più velocemente possibile di rimettersi con i piedi dietro la linea del tiro da tre punti nell’angolo destro del campo. Il problema è che quell’angolo si trova alle sue spalle e per raggiungerlo Allen è costretto a correre all’indietro. Un movimento innaturale. Mentre Bosh lascia andare il pallone lui continua ad arretrare, nella speranza di vedere le sue scarpe posizionate dietro quella linea per avere il tiro che potrebbe cambiare l’esito della partita. Quando la palla raggiunge finalmente le sue mani, “He Got Game”, che fino a quel momento ha segnato un solo canestro dal campo e sbagliato tutti i tiri da tre punti tentati, fa quello che ha fatto ogni singolo giorno della sua vita da quando ha cominciato a giocare a pallacanestro. Richiama lo sviluppo della memoria muscolare in un momento in cui il suo corpo non è allineato come dovrebbe e il caos intorno a lui è in grado di cambiare l’equilibrio a chiunque. È un tiro che ha sempre sognato di prendere e che ha allenato ogni giorno della sua vita. Sui campi in cemento delle basi militari, in quella sporca e odiata palestra di Dalzell nel South Carolina, al campus di Storr e in ogni arena in cui abbia giocato. Mentre il pallone si stacca dalle sue dita, tutto il mondo segue la parabola col fiato sospeso.

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Il tiro che Ray Allen sta per prendere a pochi secondi dal termine di gara 6 della finale NBA non è disegnato per lui, è disegnato dal caso, dal destino, ma poco importa. I diciannovemila dell’American Airlines Arena, meno quelli che non ci hanno creduto e se ne sono andati, hanno tutti gli occhi puntati su Ray Allen. Non esiste pressione, è solo routine. Una ripetizione di un movimento fatto milioni di volte. Quando Ray riceve la palla, Tony Parker si avventa su di lui nel tentativo di oscurargli la visuale. Il lavoro delle caviglie di Ray è clamoroso, il movimento è talmente rapido che la sua parabola è meno arcuata del solito. Ha l’incredibile capacità di capire che la spinta che sta perdendo a causa del movimento innaturale di corsa all’indietro va compensata con altro. Un colpo di frusta della schiena. Per prendere quel tiro ci vuole una sensibilità fuori dal comune. La palla si stacca dalle sue dita e… splash! Una conclusione perfetta. San Antonio 95-Miami 95. Ray si volta verso gli uomini in maglia gialla: «Levate quei c**** di cordoni!» grida con tutta la voce che ha in corpo. San Antonio, che pensava di avere in mano quella partita, nel supplementare si scompone e due giorni dopo, complice una gara 7 leggendaria di LeBron James, Miami vince il secondo titolo consecutivo e il terzo della sua storia. Ray Allen chiuderà l’ultima partita con soli due punti segnati. Poco importa, quel tiro scoccato due giorni prima è il motivo per cui tutti gli Heat festeggiano sul palco. Il tiro più importante nella storia delle finali NBA.

Tratto da “Dream Games” (Rizzoli), di Alessandro Mamoli, 18€, pp. 240

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