L’assemblaggio perfetto Ode all’identità costruttivista, con il vino come fil rouge

Nel Chianti esiste un luogo dove la produzione vitivinicola integra con grazia e armonia un percorso contemporaneo che coinvolge artisti internazionali

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È possibile arrivare in un posto che all’inizio degli anni Ottanta sembra davvero più disabitato e selvaggio di quello che non sia ancora oggi, nonostante tuttora la presenza antropica in questo cuore di Toscana sia ampiamente al di sotto degli standard a cui siamo abituati, e costruirci una realtà che da economica si trasforma in sociale e, a tutto tondo, culturale? Se è possibile, a giudizio di chi scrive naturalmente, la potenza diventa atto in quella realtà straordinaria che porta il nome di Castello di Ama e che sin da questo nome denuncia la prevalenza della volontà sulle stesse, fisiche opportunità.

Quando si giunge dove il navigatore e i cartelli indicano essere Castello di Ama, il castello non c’è. Fu distrutto nel diciassettesimo secolo e al suo posto nel borgo odierno sorsero un paio di dimore patrizie con diverse dépendance oggi meravigliosamente conservate. Un poco più in alto, sul poggio, un paio di edifici riadattati fanno da cornice alla cantina realizzata con uno stile architettonico molto confacente al luogo, nonostante stiamo parlando di un manufatto di fine anni Settanta.

Ma parlare di questi luoghi e delle persone che li animano non ha senso semplicemente per descrivere, come peraltro io non saprei fare, una produzione enologica e la sua peraltro già molto celebrata qualità. Mi interessa piuttosto, qui, mettere in luce il criterio con il quale Castello di Ama è stata realizzata come azienda ed è gemmata nelle cose che è possibile esperire oggi raggiungendola.

Uso il femminile perché qualcosa di così fecondo e costantemente fertile richiama la vita e la vitalità, anche al di là del sostantivo, pur ricco di sfumature semantiche, che è azienda.

Se all’inizio degli anni Ottanta i tre soci fondatori individuarono in Marco Pallanti l’anima enologica di cui avevano bisogno, probabilmente si resero ben presto conto di avere innestato quello che più che un maître de chai era (ed è) un maître à penser.

Formazione tra Firenze e Bordeaux, incrollabile fede nelle relazioni nutrienti e costantemente ricche di spunti, Marco ha dato un’anima enologica improntata all’assenza di dogmatismi e all’innovazione costante, insieme a una eguale attenzione per pratiche tradizionali come l’allevamento a lira, altrove da tempo abbandonato e invece qui capace di nuova vita e soprattutto risposte alle sfide poste dal cambiamento climatico. Il tutto unito a con un utilizzo intelligente ma a tutto tondo dei piccoli legni nuovi francesi e rinnovando la toscanissima arte della tecnica del taglio come strumento preferenziale per rappresentare il terroir e le sue variazioni, sfuggendo alle gole delle annate.

Tutti i vini di Ama parlano una lingua estremamente interessante per chiunque ami vini fragranti, di impeccabile fattura ma anche di spiccata personalità acida come, finalmente, il mercato moderno premia. Non c’è nulla di artificiale in questo, ma semplicemente il miglior sfruttamento di una posizione pedologica e altimetrica con tutte le caratteristiche giuste.

Come detto, però, non è sui vini che si concentra questo sguardo, bensì sull’idea che attraversa Castello di Ama e innerva diverse declinazioni. La prima è più evidente per chiunque non giunga qui attratto soltanto dalle bottiglie, ed è senza dubbio la compenetrazione tra arte contemporanea e attività agricola.

Venticinque anni fa la proprietà, che include la famiglia Pallanti, decise di inaugurare un percorso di attenzione verso i più rappresentativi artisti contemporanei a livello mondiale, includendo nella realtà aziendale le loro realizzazioni. Oggi queste ammontano a diciotto e sono di straordinaria grazia, oltre che di qualità elegantissima: non fosse altro per il fatto che si scoprono nell’abside di una cappella antica, nel locale al servizio del forno di borgata, nel giardino di una villa seicentesca (ma talmente perfettamente legato all’ambiente circostante da un sistema di specchi e di apertura sul panorama che l’occhio ne rimane appagato non meno del cuore). E poi le pietre incise intorno a uno stagno circondato da un tappeto di elicriso, i vetri soffiati che rappresentano la luce interna al corpo umano sospesi al soffitto della barricaia e l’inquietante quanto profetico scorcio dedicato ai muri del mondo, a ricordarci quanto gli umani siano portati per dividersi anche se possono realmente godere la propria esistenza solo nell’unità.

Rispetto ad altri luoghi dove l’arte contemporanea si è legata alla produzione vitivinicola la cifra di Castello di Ama è, manco a dirlo, l’assemblaggio perfetto. Nessuna delle due componenti risulta in qualche modo asservita all’altra. Nessuna delle due risulta essere in qualche modo prevalente.

E questa misura è la stessa misura che si riscontra con le persone che lavorano per questa realtà che insiste su oltre settanta ettari vitati (a cui si sommano ovviamente boschi e oliveti) e ha poco meno di settanta dipendenti. In questo momento non è banale ricordarlo: l’azienda lavora esclusivamente con persone direttamente a contratto con l’azienda e anche gli stagionali sono stagionali che ogni anno trovano nel periodo estivo la conferma del proprio posto di lavoro per le attività di palizzatura e cimatura, che sono tuttora svolte prevalentemente a mano.

Riportare vita nel Chianti Classico non è qualcosa di disgiunto dalla volontà che Marco Pallanti come presidente del consorzio del Chianti Classico ha dimostrato nel portare a compimento la nascita della categoria Gran Selezione, con il dichiarato intento di riportare nell’alveo della denominazione più prestigiosa della regione, e certamente tra le più importanti d’Italia, anche quei produttori che in assenza di un’adeguata valorizzazione della qualità non sentivano più questa come casa propria.

In una riflessione molto intelligente quanto sorprendente per la giovane età del suo autore, Arturo Pallanti, figlio di Marco, mi ha confidato i dubbi di chi si interroga rispetto all’effimero successo di una zona viticola nella quale l’aspetto paesaggistico e turistico appare ictu oculi prevalente sugli aspetti produttivi. Una notazione preziosa che diventa anche il presupposto del futuro, per chi del fatto di riportare vita e vitalità là, dove la natura a lungo ha dominato il panorama incontrastata, ha fatto la propria cifra stilistica.

Ecco l’elenco delle opere d’arte visibili a Castello di Ama
2000 | Michelangelo Pistoletto (1933) | L’albero di Ama: divisione e moltiplicazione dello specchio
2001 | Daniel Buren (1938) | Sulle vigne: punti di vista
2002 | Giulio Paolini (1940) | Paradigma
2003 | Kendell Geers (1968) | Revolution/Love
2004 | Anish Kapoor (1954) | αμα
2005 | Chen Zhen (1955-2000) | La lumière intérieure du corps humain
2006 | Carlos Garaicoa (1967) | Yo no quiero ver mas a mis vecinos
2007 | Nedko Solakov (1957) | Amadoodles
2008 | Cristina Iglesias (1956) | Towards the ground
2008 | Giovanni Ozzola (1982) | Omnia Munda Mundis
2009 | Louise Bourgeois (1911-2010) | Topiary
2010 | Ilya & Emilia Kabakov (Ilya: 1933-2023, Emilia: 1945
) | The observer
2011 | Kendell Geers (1968) | House of spirits
2012 | Pascale Marthine Tayou (1967) | Le chemin du bonheur
2014 | Hiroshi Sugimoto (1948) | Confession of Zero
2016 | Lee Ufan (1936) | Topos (excavated)
2017 | Roni Horn (1955) | Untitled («One can recognize a great cold [in Yakutsk], she explains to me, by the bright, shining mist that hangs in the air.
When a person walks, a corridor forms in this mist. The corridor has the shape of that person’s silhouette. The person passes, but the corridor remains, immobile in the mist»)
2019 | Mirosław Bałka (1958) | red nerve
2020 | Jenny Holzer (1950) | Per Ama
2023 | Giorgio Andreotta Calò (1979) | tana

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