La guardia del corpo genialeElena Ferrante e il femminismo al ribasso di questo secolo

Tutto è maschilismo, dalle classifiche dei libri agli attentati a Trump. Ma come si fa a definire autofiction il romanzo di un’autrice (o autore) di cui non si sa niente? Un tempo, poi, si reclamava la parità per avere posti di potere, non per fare la bodyguard dell’ex presidente

AP/Lapresse

Anni fa, quando il MeToo era fresco, avevo una chat in cui qualcuna ogni tanto scriveva che, se classificavamo tutto come maschilismo, poi niente era più maschilismo. Era una chat di tutte femmine, che si è interrotta il giorno in cui una di noi ha deciso che era maschilismo qualcosa che per le altre non lo era.

Adesso che è passata la linea per cui è tutto maschilismo, dalle classifiche dei libri agli attentati ai candidati alla presidenza degli Stati Uniti, cerco da ore di ricordarmi da ore quale fosse il pretesto per cui ci perdemmo, noialtre di quella chat, quasi senza una parola – ma proprio non mi torna in mente.

Ho saputo della presenza di Elena Ferrante nella classifica dei libri del New York Times dal messaggio d’un conoscente americano. Aveva fatto delle storie di Instagram indignate perché mancava dalla lista il suo scrittore preferito (i cinquanta sono i nuovi quindici, e quindi eccoci qui a difendere in toni vibranti le cantanti e gli scrittori che ci piacciono: culto della personalità diffusissimo, in compenso personalità pochissima).

Il suo scrittore preferito è Murakami, e quindi l’ho insultato nel modo in cui preferisco insultare gli americani: certo, perché siete insulari, non sapete niente di quel che succede fuori dai vostri confini, traducete pochissimo e quel pochissimo comunque non lo conoscete. Avevo proceduto a raccontargli il mio aneddoto preferito – quella volta che intervistai un’autrice americana che non aveva mai sentito nominare Carrère – e lui mi aveva risposto solo: though Ferrante is on (che in italiano credo si traduca: una spaghetti e mandolino c’è, calmati).

Neppure mi aveva detto che era prima, quindi non l’avevo saputo fino a uno o due giorni dopo (mica penserete che vada a guardare le classifiche dei libri dei viventi, orsù), quando l’informazione mi era arrivata sotto forma di polemica.

Dagli italiani, indignati perché gli altri italiani, quelli che non erano i polemisti che si stavano esprimendo in quel momento, quelli cui non piaceva la tetralogia ferrantiana, erano evidentemente sessisti (ma non si sa se Elena Ferrante abbia mai mestruato in vita sua, se sia una squadra di dottorandi maschi di Stoccolma o una signora di Napoli, che sessismo è mai questo, un sessismo senza sesso d’appartenenza?).

Dagli americani, indignati perché la scheda informativa definiva “L’amica geniale” autofiction. Non: indignati perché «autofiction» è la parola più orrenda del secolo e non bisognerebbe usarla mai; indignati perché è «low-key sexism» dare per scontato che, se una cosa la firma una donna, quella cosa parli del di lei ombelico (e se fosse sessismo al contrario? Basta essere donna percepita, nella finzione egotica, per essere in cima a una classifica che ignora Knausgård).

Pochi giorni prima era uscita sul New Yorker un’intervista molto interessante a Lena Dunham. Lena Dunham che è una macchia di Rorschach. Qualche settimana fa qualcuno ha messo su Twitter una pagina di giornale di dieci anni fa. Era un articolo che avevo scritto su Beyoncé e Chimamanda e il loro femminismo, e a rileggerlo mi hanno fatto impressione due cose.

Una è che dieci anni fa, dovendo nominare Taylor Swift, dovevo precisare chi fosse (una cantautrice che piace alle adolescenti: tenerella che ero). L’altra è che dieci anni fa Lena Dunham era abbastanza rilevante da non dover specificare chi fosse. Che Lena Dunham fosse rilevantissima nella cultura popolare e un attimo dopo fatichiamo a ricordarcene dice più cose di noi o di lei?

Nell’intervista Dunham fa un esempio di quel maschilismo immaginario caro agli esegeti di Elena Ferrante. Dice che, ai tempi di “Girls”, cioè tra il 2012 e il 2017, le attrici venivano considerate come gente che metteva in scena sé stessa e siam buoni tutti, e gli attori come degni di premi e ammirazione per la loro tecnica recitativa. È vero? Non ne ho idea, ma forse il punto, Lena, è che gli uomini erano attrezzi di scena, nella tua serie con al centro le ragazze. Certo, l’unico che ha avuto una carriera, tra quelli diventati famosi con “Girls”, è quell’uomo senza qualità di Adam Driver, ma non sono certa ciò basti a dire che tutto è maschilismo.

C’è però un altro passaggio dell’intervista di Dunham che mi ha colpito ancora di più, a proposito di maschilismo immaginario. Racconta Lena d’un tizio che le ha chiesto se per caso avesse visto il cortometraggio con cui si era laureato, perché era certo che si fosse ispirata a quello per una certa sottotrama di “Girls”. Ricopio.

«Insomma, alla fine il suo film da tesista parlava di un ragazzo la cui ragazza abortiva anche se lui non voleva. E io: sì, come qualunque uomo in America, caro mio. Ma lui era sicurissimo che io avessi visto il suo corto, e insomma l’ho dovuto cercare. E non voglio infierire ma aveva tipo trentanove visualizzazioni su Vimeo, e la maggior parte erano probabilmente di sua madre».

Un’autrice coi controcazzi (chiedo scusa per il complimento maschilista) come Dunham, qualora non preda dei pavlovismi di vittimismo femminile, da questa storiella concluderebbe che il mondo è pieno di mitomani, di geni incompresi autocertificati, di Giancarlo Iacovoni che, se solo il sistema non li ostacolasse, loro sì diventerebbero Scorsese (o Dunham). E invece lei come conclude? «Chiederesti a Noah Baumbach se ha copiato il corto che hai girato da studente?».

Non so se glielo chiederebbe, Lena: so che lo penserebbe. Perché l’umanità, prima che maschio o femmina, è mitomane e priva di senso del ridicolo e del proprio posto nel mondo. E tu lo sai, altrimenti non avresti scritto quella favolosa puntata di “Girls” che s’intitolava “American Bitch”.

Ero ancora lì che mi chiedevo come si facesse a definire autofiction l’opera di qualcuno la cui vera opera di genio è stata non dare mai un’intervista, non dire mai niente di sé, resistere alla tentazione d’instagrammare le vacanze e i nipoti e le sfogliatelle e lasciarci liberi di fantasticare sull’identità autoriale oltre che sull’opera – che ne sai, tu lettore, se sia elaborazione dell’autobiografia il lavoro d’un autore della cui autobiografia non sai niente di niente? – quando sono arrivate le immagini goffissime di tre tizie del servizio segreto americano che mettevano in macchina Trump dopo l’attentato.

Nessuna persona raziocinante pensa di sapere come stiano i fatti dopo aver visto un minuto di video, ma in quel minuto parecchio imbarazzante di video c’è una tizia che non riesce a reinfilare la pistola nella fondina, e anche le altre due sembrano più Austin Powers che James Bond. E quindi è partita da destra la polemica: tutta colpa delle vostre politiche inclusive, mettete le donne a far lavori da uomini e poi guardate cosa succede.

Non so come contropolemizzeranno quelle che tutto è sessismo, giacché che le donne siano fisicamente pari agli uomini faceva già ridere quando lo si usava come argomento per atleti transessuali, figuriamoci se possiamo dirlo con la faccia seria quando una donna alta la metà di Trump inciampa nei propri piedi mentre dovrebbe proteggerlo.

Però non ho capito come sia successa, questa cosa delle agenti di sicurezza con la coda di cavallo e le mossette. Ero rimasta che, quando le donne reclamavano parità, lo facessero per avere posti di potere o di comodo. Per fare l’autofiction, non il manovale. Per fare Trump, mica la sua guardia del corpo.

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