Dunaway assoluta L’epopea di Faye, tra il terrore di Nicholson e il matrimonio all’italiana di Mastroianni

Nel documentario sull’attrice purtroppo non ci sono alcuni grandi vecchi con cui ha recitato in film che hanno fatto la storia, probabilmente perché volevano evitare confronti tra com’erano e come sono. Che è quel che inevitabilmente facciamo quando inquadrano lei

AP/Lapresse

Si può girare un documentario su Faye Dunaway in cui ci siano, a dire la loro su un’attrice fondamentale della Hollywood del Novecento, Sharon Stone e Mickey Rourke, ma non Warren Beatty e Jack Nicholson e Robert Redford? Non se ne è contenti, probabilmente, ma se si deve si fa.

Qualche settimana fa, durante un incontro pubblico, mi hanno chiesto di rievocare il periodo in cui avevo lavorato a un documentario su Monica Vitti che poi non si è mai fatto. La cosa principale che ricordavo era che erano quasi tutti morti. Tutti quelli che avresti voluto sentir parlare di lei, intendo. Ne erano già allora rimasti pochissimi, e l’uomo più saggio che conosco consigliò a noialtre che stavamo cercando di mettere insieme dei viventi con cui fosse interessante parlare di sbrigarci: l’estate per i vecchi è letale, disse. Aveva ragione: di lì a poco morirono tre dei pochi fino ad allora superstiti.

Ci avevo ripensato l’anno scorso, quando era uscito un documentario su Raffaella Carrà: bisognerebbe essere così bravi da capire con decenni d’anticipo chi resterà nella storia dello spettacolo, e filmare via via, e trovarsi così il documentario fatto, quando l’oggetto dell’interesse raggiungerà l’età del venerato maestro, con le testimonianze giuste raccolte all’età giusta. Cosa guardo a fare un documentario sulla Carrà se non parla Mina, se non parla Gianni Boncompagni.

Faye Dunaway esiste su due livelli. Uno è quello dei cinefili: “Chinatown”, “Gangster story” (improbabile titolo italiano di “Bonnie and Clyde”, per Pauline Kael «il più esaltante film americano dopo “Va’ e uccidi”»), “I tre giorni del condor” (per una certa scena del quale oggi verrebbero tutti accusati di rappresentazione compiacente di stupro, o giù di lì).

L’altro è quello della cultura popolare: “Mammina cara”, la storia con Mastroianni (che Faye ora definisce «the king of Italy»), e il vincitore sbagliato agli Oscar del 2017. L’intersezione tra questi due insiemi potrebbe essere Warren Beatty (il Clyde della sua Bonnie, ma anche l’uomo che crudelmente le passò il cartoncino sbagliato agli Oscar).

Credo però che, se un’intersezione dunawayana tra cultura popolare e cinefilia esiste, essa non possa che essere “Quinto potere”, il miglior ruolo di Dunaway e anche uno dei film che più hanno visto il futuro (è del 1976 e sembra scritto tre quarti d’ora fa).

Pauline Kael intitolò “Dunaway Assoluta” il capitolo che conteneva la recensione di “Mammina cara” delle sue critiche comparse sul New Yorker negli anni Ottanta. Diceva che Dunaway, diventando Joan Crawford ma restando saldamente Dunaway, aveva «inventato una folie à deux». (La Dunaway del 2024 dice che fece un errore ad accettare quel ruolo, Sharon Stone dice che è colpa del regista se tutti ridono da quarant’anni di Faye in quel film: ma chi, io conosco solo gente che lo venera).

Io “Dunaway Assoluta” me lo sarei giocato per sintetizzare “Quinto potere”, ma Kael invece aveva detestato il film e ancor più il personaggio di Faye, secondo lei utile solo a dirci che i giovani sono superficiali e per loro esiste solo ciò che vedono in televisione e non provano vere emozioni, «ma le emozioni le provano anche i gatti» (nota a margine: in “Quinto potere” Dunaway era in effetti più giovane dei protagonisti maschili, ma aveva trentacinque anni; l’infanzia prolungata non se l’è inventata questo secolo).

“Quinto potere” è anche responsabile d’un altro caposaldo della presenza di Dunaway nella cultura popolare. Fu la mattina dopo l’Oscar ricevuto per il ruolo che tanto era dispiaciuto a Kael che le fu scattata (da Terry O’Neill, che poi diventò suo marito e il padre di suo figlio) la sua foto più famosa, nonché una delle più famose della storia di Hollywood: Dunaway in vestaglia, a bordo piscina allo Chateau Marmont (un albergo leggendario quanto lei), la statuetta dell’Oscar sul tavolino, i giornali coi titoli sul trionfo di “Quinto potere” e il premio postumo a Peter Finch sparsi per terra. La foto più copiata degli ultimi quarantasette anni, la foto con cui saggiamente comincia “Faye”, il documentario (in America va in onda stasera su Hbo, in Italia arriverà su Sky e Now dopo l’estate).

Documentario che è molto più povero di storie strepitose di quanto lo vorremmo. Certo, Dunaway ci dice che, dal set di “Chinatown” in poi, Jack Nicholson l’ha sempre chiamata Dread, Terrore, in seguito a una piazzata che aveva fatto a Polanski che le aveva tirato i capelli. Ma Jack non appare per dircelo lui, che sarebbe stata tutt’altra cosa.

Per chi se ne ricorda – ormai ricordarsi una vicenda di sette anni fa è arduo come ricordare i Fenici e i Sumeri – gli Oscar del 2017, quando a Faye e Warren, che dovevano annunciare il miglior film cinquant’anni dopo “Gangster story” (che peraltro cinquant’anni prima non aveva vinto: era un siparietto pasticciato fin dall’ideazione), venne dato il cartoncino sbagliato, e quelli diedero per vincitore “La la land” invece che “Moonlight”, quegli Oscar lì furono l’inizio del dibattito che continua alle presidenziali americane del 2024: quand’è che sei così vecchio da essere troppo rincoglionito per risultare affidabile?

Di quella serata in “Faye” non c’è traccia, perché c’è solo una cosa più disastrosa che girare un documentario i protagonisti del quale siano tutti morti, ed è dover girare un documentario con la collaborazione dell’oggetto del documentario, facendosi dire questo sì e questo no da chi ha a cuore la propria immagine, mica l’interesse del pubblico.

La storia tra Faye Dunaway e Marcello Mastroianni è della fine degli anni Sessanta. Sono passati più di cinquant’anni, ma l’ottantatreenne che appare in “Faye” sembra ancora convinta che, fosse stato per lui, Marcello – l’uomo che ha avuto più storie parallele senza mai divorziare dalla moglie Flora, il principale rappresentante del matrimonio all’italiana – si sarebbe separato per lei.

Dice Faye che l’Italia era cattolica, non si poteva divorziare, e solo per questo fu una storia clandestina: «Per un po’, scema che ero, ci ho creduto, mi mettevo la parrucca, arrivavo a Fiumicino, era tutto molto romantico e illusorio, forse delirante». Per uno struggente attimo vorrei che il regista le dicesse no, non eri scema tu, non era l’Italia che ancora non aveva una legge per il divorzio, era proprio lui che era così, un prodotto locale ma globale.

A un certo punto, parlando di magrezza e vita d’attrice, Sharon Stone dice: «Non è che fai tre pasti completi al giorno e entri nei vestiti delle sfilate, e io e Faye lo sappiamo». Il cinema è immagine, lo sa Stone e lo sa Dunaway e lo sappiamo tutti. Però facciamo finta di no, giacché tra le maledizioni del presente c’è anche l’impossibilità di fare considerazioni estetiche su una donna senza venire accusati di misoginia.

Però il cinema è immagine, la tv pure, e io in “Faye” preferisco quando parlano gli altri, perché a ogni primo piano di Dunaway mi fisso sulle sue narici infiammate, sul suo aspetto da donna che ha provato a conservare l’aspetto dei quarant’anni ed è diventata un ibrido, né la quarantenne che era né la magari meravigliosa ottantenne non devastata dai restauri conservativi che sarebbe potuta essere.

Lo so che vogliamo disperatamente far finta che quest’osservazione sia maschilista e che i criteri estetici valgano solo per le femmine e che non scriverei mai le stesse cose dello sfascio d’un attore. Lo so che non vogliamo interrogarci sull’assenza degli abbondantemente ultraottantenni Redford e Beatty e Nicholson, che sono vivi ma mica così fessi da comparire in un documentario che metta vicine le immagini della loro giovinezza splendente e del loro declino fisico.

Proprio come con quel cartoncino sbagliato nel 2017, Warren Beatty deve averle detto «vai avanti tu». Più furbi di Faye, Robert e Warren e Jack lasciano che, per i confronti maschili tra com’eri e come sei, continuiamo a concentrarci su Joe Biden.

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