I taxi separati dalle opinioniPer fare la cresta sui rimborsi non ti puoi più fidare neanche degli evasori

Storia del giornalismo (e dell’Italia) raccontata attraverso le ricevute in bianco dei tassì, quando ancora non c’erano Cairo, le telecamere dei tassisti e i social moralizzatori

Ho capito che era tutto finito un paio d’anni fa, quando un editorialista del Corriere ha ricevuto una telefonata da Urbano Cairo. Segue resoconto che prego Cairo di non smentire, primo perché è una storia troppo bella per non crederla vera, secondo perché non importa se il colloquio sia andato davvero così: già che si possa inventare un colloquio del genere ci dice che è finito tutto.

Dunque la segretaria mette in attesa l’editorialista, e dopo qualche secondo gli passa l’editore. Dottore, come sta, innanzitutto complimenti per i suoi bellissimi articoli, esordisce l’editore; per poi assestare il colpo mortale mentre quello già gongola compiaciuto, certo che la chiamata sia come minimo per affidargli la direzione (in futuro ognuno avrà diritto a essere oggetto del pettegolezzo «è il prossimo direttore del Corriere» per un quarto d’ora).

Purtroppo, prosegue l’editore, vedo che lei ha presentato una ricevuta da 9 euro e 50 per un taxi del 17 maggio, ma lei il 17 maggio era di corta, quindi io non glielo posso rimborsare («di corta» è il modo in cui nei giornali si chiamano i giorni di riposo). In questo educato respingimento della richiesta di nove euro e mezzo, in questo dialogo che da due anni qualunque persona lavori nei giornali ripete a chiunque, ci sono diversi strati di meraviglia.

Certo, c’è il fatto che così si costruiscano gli imperi: controllando personalmente le ricevute dei tassì, e contestando nove euro e mezzo di rimborso, e questo strato varrebbe un trattato sulle ricchezze accumulate e quelle ereditate, e le diverse qualità che caratterizzano le due diverse tipologie.

Certo, c’è l’imbarazzo di chi avrà buttato in mezzo delle ricevute trovate nelle tasche senza controllare date e percorsi, e si trova così umiliato per nove euro e mezzo, fossero almeno stati novecento, le creste non son più quelle d’un tempo.

Ma oggi mi voglio invece concentrare sul rituale dei rimborsi, su un mondo di room service e autisti e altra roba che ai tempi nostri non sarà stata come a quelli di Hemingway in guerra ma insomma era meglio di adesso. Mi voglio concentrare su due cose che accadono alla me ventritreenne nella prima rete televisiva in cui si trova a lavorare (che solo per coincidenza nel secolo successivo sarà di proprietà di Cairo). La seconda cosa che succede è che a un certo punto, in uno dei primi ambienti zeppi di giornalisti che la piccola me si trovasse a frequentare, tutti parlano d’un direttore che è stato cacciato dal suo posto, e del fatto che la scusa che hanno trovato per cacciarlo è che nei suoi rimborsi spese ci fossero sempre loro: le ricevute di tassì dei giorni in cui non lavorava.

Non so se fosse vero (probabilmente no: non è che un direttore di giornale abbia giorni di non lavoro, non è che se va a trovare una fonte un inserzionista un potenziale collaboratore, in un giorno in cui il giornale non esce, allora l’editore non gli rimborsi il tassì); ma ricordo la cosa che mi disse allora l’uomo più saggio che abbia mai conosciuto. Faceva così: se li vuoi licenziare, vai a guardare i rimborsi spese, troverai sempre qualcosa.

Era quasi trent’anni fa, ci dicevano che era tutto finito ma le vacche viste da ora erano grassissime. Nella seconda metà degli anni Novanta, l’ufficio contratti Rai mi diceva ogni anno che mi avrebbe dato meno soldi dell’anno prima perché i soldi erano finiti, e insomma la miseria percepita è come l’identità di genere: un contagio sociale. Era quasi trent’anni fa, eravamo poco ricchi ma già pezzenti che tentano di truffare sui tassì.

E quindi, veniamo alla prima e più importante cosa che succede quando entro per la prima volta nella mia prima redazione televisiva. Un produttore scafato mi indica un bigliettino attaccato al muro, su quel bigliettino c’è il numero di M., che il produttore mi suggerisce di ricopiarmi nell’agendina. M., figlio del secolo quant’altri mai, è il nostro tassista. Significa che, in caso di spostamento lavorativo, prima si chiama lui, e solo se lui non può si chiama il radiotaxi.

A M. si può chiedere il blocchetto. Il blocchetto di ricevute in bianco, che poi compileremo a volte prendendoci la briga di cambiare scritture e penne e altre no, per farci rimborsare taxi mai presi.

Ero molto giovane e non sapevo niente. Non sapevo che c’erano intere redazioni che, più che per le prestazioni giornalistiche, erano famose perché tornavano dalle Olimpiadi con quaranta ricevute tutte dello stesso ristorante, che ogni inviato si compilava da solo dopo essersi inguattato un blocco di ricevute in bianco dal registratore di cassa l’unica sera in cui l’orata l’aveva ordinata e pagata davvero.
Non sapevo che il problema, se M. quel giorno era impegnato, era che agli altri tassisti non potevi chiedere il blocchetto; un paio di ricevute in bianco, quelle sì, quelle erano la prassi, gli davi la mancia, gli permettevi di arrotondare la corsa, e quello in cambio lasciava che tu ti facessi rimborsare quel che volevi.

Non sapevo neanche, ma non mi ci volle molto a capirlo, che tutto questo giochino era fondato sull’evasione fiscale dei tassisti; quei blocchetti avevano il valore fiscale dei post-it su cui scrivevamo i numeri di telefono in redazione: certo che te li davano in bianco, valevano quanto i soldi del Monopoli.

Quando iniziai a viaggiare per lavoro, diventavo pazza perché il mio commercialista, che registrava ligio i foglietti con cifre a caso dei tassisti romani, appallottolava dichiarandole senza valore le ricevute dei taxi newyorkesi, che erano scontrini usciti dal tassametro, con tutto registrato, data, importo, mancia, percorso. Quelli no, quelli chissà che diavoleria sono, i nostri foglietti con le pubblicità delle trattorie di Trastevere, invece, quelli sì li detraiamo dalle tasse.

Non mi è mai stato chiaro come potesse stare in piedi un sistema in cui io detraggo dalle tasse una spesa che la controparte non dichiarerà come guadagno – perché il foglietto senza valore fiscale che detraggo io non obbliga a nessun tributo lui – ma sarà di certo perché l’anima del commercio mi è oscura. Persino io arrivavo però a capire che, se i tassisti avevano l’unico commercio senza obblighi fiscali della nazione, era perché tutti quelli che se ne sarebbero potuti occupare, dai giornalisti ai politici, preferivano farsi dare i blocchetti in bianco che occuparsi del malaffare. (È lo stesso principio per cui tutte preleviamo contanti solo per i parrucchieri cinesi che non vogliono la carta: certo che evadono le tasse, ma se le pagassero mica mi farebbero la piega a 12 euro).

E infatti i giornali hanno iniziato a occuparsi dei taxi quando sono diventati abbastanza poveri da far scrivere gente che, per la prima volta nella storia del giornalismo italiano, i taxi se li doveva pagare da sola senza che nessuno glieli rimborsasse, e quindi non aveva niente da perdere.
Nel frattempo non è cambiato assolutamente niente, le ricevute dei taxi italiani continuano a essere non fiscali, i felici pochi che riescono ancora ad avere rimborsi spese continuano a farsi dare ricevute in bianco (ho ancora qualche blocchetto romano, potrei subaffittarli), in compenso ci sono telecamere ovunque e non si può fare più niente di nascosto: Frank Underwood avrebbe i suoi problemi persino a buttare una giornalista sotto al metrò, figuriamoci se quella giornalista potrebbe mai riuscire a barare su una ricevuta.

A maggio una tizia ha chiesto a un tassista una ricevuta di venti euro (nessuna cronaca dice avendone pagati quanti: dieci? Quindici? Diciannove? Il grado di pezzenteria è importante, se dobbiamo sentirci migliori ci servono dettagli), quello s’è rifiutato e poi ha dato il filmato della telecamera di sicurezza a un qualche account social di moralizzatori. Si sarà irritato perché la signora, non cresciuta a buone scuole di redazioni televisive, non conoscerà il rituale: prima la mancia, e poi la richiesta di ricevuta da arrotondare.

Il popolo del dossieraggio ha individuato il nome, e la tizia – esponente di Forza Italia – è stata licenziata da Fincantieri. Io, che guardo sempre il dito e mai la luna, di quel video sono stata soprattutto colpita dal fatto che il tassista le dia del lei e lei gli dia del tu. Rispondere col tu al lei è uno dei miei preferiti tra gli indizi di voragine morale (o grammaticale: fa differenza?); ma in questo caso non posso esser certa che lui non ostenti il lei solo perché ha l’indebito vantaggio di sapere d’esser ripreso, e che quel video lo diffonderà.

Resta che l’uomo più saggio che abbia mai conosciuto è, trent’anni e un cambio di valuta più tardi, ancora il più saggio: cerca tra le ricevute, se li vuoi licenziare, e qualcosa trovi sempre.

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