Sinestesia di saporiNon basta solo il gusto per capire il cibo

Nel suo nuovo libro “Elogio del mangiare con le mani” (il Saggiatore), Allan Bay invita a riscoprire il piacere del gustare piatti senza intermediari, come si faceva da piccoli

Perché, per me, è «giusto» mangiare con le mani? Innanzitutto, perché io ho un approccio unitario al mangiare. Mangiare è un atto che coinvolge il cuore, il cervello, lo stomaco. Tutti i sensi, poi, sono chiamati a partecipare. Gusto e olfatto, è naturale, ma anche la vista: un piatto che definiamo bello già ci piace, mentre uno disordinato non ci intrigherà. L’udito, poi, ha una sua importanza: il crock dei grissini e delle patatine fritte è decisivo, e una sua eventuale assenza lascerebbe intuire che qualcosa non va.

Ma soprattutto, all’atto di mangiare partecipa il tatto. Il tatto è un sistema sensoriale con cui impariamo a interagire fin da subito nella nostra infanzia, in quanto è il primo che sviluppiamo da neonati. Per questo partecipa in modo del tutto naturale alla nostra capacità di apprezzare e di valutare il cibo: tastare la frutta per capire se è matura, per esempio, è un gesto che sorge spontaneo.

Ancor più importante, toccando il cibo con le mani si entra in una comunione con esso che non è sbagliato definire mistica. Mi sono a lungo chiesto con quali parole spiegare questa idea; finché, un giorno, mi sono imbattuto in una riflessione, non ricordo di chi, ispirata a quel capolavoro che è Libro d’ombra di Jun’ichirō Tanizaki. Diceva di come la forchetta, rispetto alle bacchette orientali, avrebbe un’interazione più brutale e aggressiva col cibo; in altre parole, mentre le bacchette accolgono il cibo, cioè lo raccolgono senza spezzarne l’unità e l’armonia, la forchetta lo infilza e lo trafigge, inserendosi in esso come corpo esterno e rompendone l’unità estetica. È un concetto molto bello, capace di spiegare come cambia il rapporto col cibo a seconda del modo, più o meno rispettoso, con cui lo si approccia. Era la certificazione filosofica di quanto avevo intuito, ma non razionalizzato. Lui parlava di bacchette, ma possiamo estendere il suo approccio alle mani: chissà che non sia persino più adeguato!

E poi esiste una parola bellissima, «manufatto». Che vuol dire «fatto a mano», ma vale anche se alcune (poche) parti della lavorazione di un prodotto sono state eseguite a macchina. Dire di un oggetto che è un manufatto resta a oggi il modo più lodevole per definirlo, e se lo riteniamo lodevole è perché diamo valore al fatto che nel realizzarlo sono state utilizzate le mani e non delle protesi meccaniche: e anche la forchetta, guarda caso, è una protesi. Ecco che il nostro stesso linguaggio sembra tradire una naturale propensione a prediligere la bellezza di conoscere e creare il mondo attraverso le mani.

I nostri modi, però, sono quelli di quanti hanno dimenticato questo splendore originario. Riflettiamo: quando eravamo bambini ci veniva concesso di mangiare le cosce di pollo arrosto con le mani, dal momento che era la via più facile. Poi, un giorno, qualcuno ci ha rimproverati, sostenendo che mangiare con le mani non stava bene e che, soprattutto al ristorante, mangiare i gamberoni, il pollo o le patatine senza l’uso della forchetta poteva essere visto come poco elegante… E noi, ahimè, ci siamo adattati.

Ciò detto, la ricetta è sempre quella. Dita sporche o no, la coscia di pollo resta una coscia di pollo; eppure, se afferrata con le mani e addentata, essa ci sembra avere un sapore diverso, più godurioso e saporito. Mangiare con le mani fa interagire tatto e gusto in modo unico, portando chi mangia così a rivivere un’esperienza atavica e ad apprezzare ancor di più, almeno inconsciamente, il sapore del cibo che viene mangiato. Il gesto di portarsi il cibo alla bocca tenendolo tra le dita o nei palmi delle mani è ricondotto dal nostro cervello a un tempo in cui la sopravvivenza era questione di ogni giorno: l’istinto si attiva e subentra in modo preponderante, aprendo a un tipo di esperienza piuttosto desueto.

Mordere fa percepire un sapore diverso da quello che si gusta assaporando un boccone già tagliato con forchetta e coltello: diverso è il profumo dell’alimento, poiché avvicinandolo alla bocca lo avviciniamo inevitabilmente anche al naso, che ne coglie dunque ogni sfumatura; diversa è la consistenza, che esploriamo in modo nuovo con le dita. Perciò sì, è vero, non ci sono dubbi: c’è più gusto, più appagamento nel mangiare con le mani.

Quando si mangia con le mani, l’esperienza dell’assaggio non parte dal gusto, bensì dal tatto. La consistenza che, attraverso le mani, percepiamo propria di un alimento può rendere quest’ultimo più o meno appetibile. Basti pensare alla forza attrattiva di una superficie croccante, o al fatto che molte persone si rifiutano di assaggiare ostriche o lumache solo perché, al tatto, queste hanno una consistenza viscida. Certo, anche l’occhio vuole la sua parte; in ogni caso, «rubare» dal piatto qualcosa che dovremmo mangiare con la forchetta è la via primaria di accesso a un gusto nuovo, e mangiare con le mani un certo alimento lo farà sembrare sempre più buono di quanto non sarebbe se ci fossero di mezzo delle posate. Questa è una regola generale, che spiega il perché di questo libro.

Per quel che mi riguarda, l’amore per questa idea mi accompagna ora così come mi accompagnava quando ero più giovane; si è rinforzato a partire dal momento in cui imparai a cucinare e di più ancora da quello in cui cominciai a occuparmi professionalmente di scrivere di cucina, nell’autunno del 1995. Mangiare con le mani già allora mi piaceva moltissimo, e piaceva ad (alcuni) dei miei amici e delle mie amiche: era più bello ancora, se fatto in compagnia. Era bello e sexy, un mix non facile da raggiungere, soprattutto per quel che riguarda il cibo. Ciò detto, anche io come tutti sono cresciuto utilizzando coltello e forchetta e le mani solo di tanto in tanto. A far guerra alle posate ci arrivai per gradi, abituato a una tra- dizione che mi perseguitava.

Soprattutto a Torcello, dove c’è una casa di famiglia che è il mio Heim, il mio focolare, il mangiare con le mani negli anni della gioventù e poi della maturità prese sempre più piede, complice anche un meraviglioso tavolo fratino di pietra d’Istria, che trovava posto nel giardino, sotto una cannicciata. Al suo fianco un salvifico lavello, in pietra d’Istria pure lui, ovviamente ornato di un rubinetto, l’acqua offerta dal quale serviva a bagnare le piante ma anche a lavarsi le mani dopo averle usate a mo’ di posate.

Tratto da “Elogio del mangiare con le mani”, (il Saggiatore), di Allan Bay, pp. 25-30, 18€

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